la Repubblica, 2 novembre 2017
L’amaca
Il terrorista uzbeko con folta barba si somma alla imprevista e “nuova” moltitudine etnica che da una ventina d’anni ha conquistato, con le buone o con le cattive (spesso con le cattive), i nostri telegiornali. Scrivo “nuova” tra virgolette perché nuova non è. Si tratta di popoli antichi e di specifica lingua e cultura, fino a poco fa inscatolati e zittiti dalla brusca semplificazione coloniale e/o imperiale, ivi compreso l’impero socialista sovietico. Niente o molto poco si sapeva di kosovari e ceceni, di uiguri e azeri, di curdi e di yemeniti del Sud prima che il mondo cominciasse a liquefarsi e ribollire. E nel caso anche la Cina, che è un mosaico di popoli, dovesse indebolirsi o collassare, prepariamoci a dover imparare nuove parole e nuove grafie.
“Oddio, ci mancava solo l’uzbeko” è dunque una buona battuta per i Monty Python o per Borat, ma non basta a rimandare i nostri conti con la realtà. Il mondo eurocentrico e poi quello bipolare, con l’impero d’Occidente e quello d’Oriente che si fronteggiano, sono finiti per sempre. Non vale maledirli né rimpiangerli. Meglio cercare sul web dov’è l’Uzbekistan, quanto dista da Manhattan, quanto da Mosca e quanto dalla Mecca.