la Repubblica, 1 novembre 2017
Mister Dollaro: Jerome Powell è il favorito al vertice Fed, domani Trump ufficializza la scelta
NEW YORK Un finanziere multi- milionario con un passato al Carlyle Group, non un economista, per la prima volta dopo il trio Greenspan-Bernanke-Yellen. Un repubblicano doc, però moderato, non tale da sconvolgere la politica monetaria americana. Un continuatore della linea attuale anche in fatto di vigilanza, cosa che può urtare gli ultrà liberisti. Ecco chi è Jerome Powell, il favorito nella corsa al vertice della Federal Reserve. Donald Trump renderà nota la sua scelta domani, alla vigilia della sua partenza per l’Estremo Oriente. Scelta gravida di conseguenze, a cui guardano i mercati di tutto il mondo. Il (o la) presidente della banca centrale americana è probabilmente l’individuo più potente nell’economia globale. E la facoltà di designarlo è uno dei poteri più significativi del presidente degli Stati Uniti, anche se poi questa nomina deve passare al vaglio del Senato.
Se sceglierà Powell, 64 anni e già governatore della Fed dal 2012 (su nomina di Barack Obama), uno strappo Trump lo farà. Anzi due. Calpesterà una tradizione abbastanza consolidata per cui i presidenti della Fed fanno due mandati. Janet Yellen che scade a febbraio verrebbe ridotta ad uno solo, un castigo immeritato visto che lo stesso Trump le ha dato (tardivamente) atto di aver lavorato bene. L’altra tradizione ignorata, è quella per cui vari presidenti degli Stati Uniti hanno confermato un capo della banca centrale del partito opposto: accadde con Greenspan e con Bernanke tutti e due repubblicani e confermati dai democratici Clinton e Obama. Ma Trump vuole «imprimere il segno» anche sulla Fed, ha detto.
Se la scelta cadrà su Powell sarà comunque un gesto che mescola continuità e discontinuità. Pur rinunciando a confermare la Yellen, Trump metterebbe alla guida della banca centrale il repubblicano che più le si avvicina. Powell nel suo ruolo di governatore, quindi membro del board, ha sempre votato nello stesso modo della numero uno. Non ha mai preso le distanze dalla strategia Yellen. Quest’ultima a sua volta era una continuatrice di Ben Bernanke, repubblicano, e della sua terapia d’urto anti-crisi: tassi zero e quantitative easing, massiccia creazione di liquidità con 4.500 miliardi di dollari di acquisti di bond.
Il profilo di Powell offre due vantaggi a Trump. Da una parte gli consente di rispettare una regola che sta applicando: disfare tutto ciò che Obama gli ha lasciato in eredità. L’accanimento nella demolizione dell’eredità obamiana è evidente, ed è la ragione principale per non confermare Yellen. Ma d’altra parte sulla politica della Yellen il presidente si è ricreduto. In campagna elettorale l’attaccò ripetutamente, facendo suo un argomento classico della destra rigorista, secondo cui la vasta espansione monetaria avrebbe generato una bolla speculativa. Ora che Trump sta alla Casa Bianca, la bolla speculativa gli sta bene: il presidente rivendica spesso a proprio merito i record storici degli indici di Borsa. Anche la ripresa economica è un vento a favore, una delle poche cose positive di cui può vantarsi questo presidente sceso al 38% nei sondaggi. È una ripresa in accelerazione rispetto ai tempi di Obama, attualmente la crescita del Pil è dell’ordine del 3% e il mercato del lavoro rasenta il pieno impiego (anche se c’è una grossa quota di disoccupazione nascosta, sparita dalle statistiche ufficiali, i cosiddetti “disoccupati scoraggiati”). Trump sa bene che la politica monetaria ha dato un contributo essenziale a un quadro macroeconomico così favorevole. Se ascoltasse le sirene degli ultra-conservatori, nominando alla guida della Fed un falco come l’economista John Taylor di Stanford, Trump rischierebbe di fronteggiare una stretta monetaria con rialzi dei tassi più frequenti o più robusti che negli ultimi anni. Una sterzata che potrebbe scatenare la prossima recessione. Donde la linea mediana, che lui si appresterebbe a sposare, nominando un repubblicano che sia il continuatore di ciò che la Fed ha fatto dal 2008 in poi.
Per il resto di certo non dispiace all’ex-tycoon immobiliare che il nuovo presidente della Fed sia un multi-milionario: uno in più non guasta, l’Amministrazione Trump già ne annovera parecchi. Quei 55 milioni di patrimonio che Powell dichiara, li ha fatti in un periodo relativamente breve (otto anni di private equity dal 1997 al 2005 al Carlyle Group) e in un mestiere per il quale non si era addestrato. Lui si era laureato in scienze politiche a Princeton, poi in legge a Georgetown. È con quella formazione che si era cimentato con le sue prime esperienze a Wall Street, poi era stato chiamato a Washington dall’Amministrazione di George Bush padre che ne fece il viceministro del Tesoro sotto Nicholas Brady. In quella posizione Powell ebbe un ruolo decisivo per risolvere la crisi della banca d’affari Salomon Brother – inguaiata da una frode sui bond – che lui pilotò nelle braccia dell’investitore Warren Buffett. La ragione per cui Obama lo nominò nel board dei governatori: il moderato Powell lo aiutò a trovare un accordo bipartisan coi repubblicani al Congresso sul bilancio federale. L’altro tema su cui il futuro capo della Fed sarà chiamato a pronunciarsi, è la deregulation finanziaria. Trump ha promesso a Wall Street di allentare la normativa Dodd-Frank, le regole anti-speculazione che Obama riuscì a far passare al Congresso per scongiurare i disastri del 2007-2008. Anche su questo Powell è meno radicale di molti suoi compagni di partito.