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 2017  ottobre 30 Lunedì calendario

Ha ucciso genitori e fratello: «Sono un tipo normale». Intervista a Ferdinando Carretta

«Io adesso sto bene. Ho comprato casa, passo diverso tempo in mezzo alla gente, ho una donna anche se non vive qui con me. Voglio solo rifarmi una vita e dimenticare il mio passato». 
Un reset difficile, quasi impossibile per Ferdinando Carretta, protagonista reo confesso di uno dei più famosi casi di omicidio a sfondo familiare della cronaca italiana. Il 4 agosto 1989, nella loro abitazione di Parma, Ferdinando, che all’epoca aveva 27 anni, uccise a colpi di pistola il padre Giuseppe, la madre Marta Chezzi e il fratello minore Nicola, in quello che lui stesso ha poi definito “un attimo di pura follia”. 
Oggi il pluriomicida che tra una settimana compirà 55 anni, vive e lavora a Forlì, la città romagnola dove ha dovuto trascorrere alcuni anni in libertà vigilata, nella comunità di recupero di Barisano, prima di essere dichiarato nel 2015 un uomo libero. Sempre a Forlì, un paio di anni fa, a poche centinaia di metri dall’aeroporto, ha comprato un appartamento bilocale con ingresso indipendente. Nel campanello non c’è il nome, nella cassetta della posta le sole iniziali “C.F.” 
L’EREDITÀ 
Una casetta ristrutturata di recente e acquistata grazie ai soldi ereditati dalla vendita dell’appartamento in cui avvenne il delitto. Un dono giudicato subito da tutti inopportuno. «È piccola spiega Ferdinando ma è quella che mi potevo permettere. Mi va bene però, perché è la mia casa». 
Statura alta, pelle chiara, capelli brizzolati, i modi gentili: è questa ora l’immagine di Ferdinando, diversa da quella che per anni ha fatto il giro di tv e giornali. «Sono la persona più educata del mondo sottolinea e il più normale di tutti». Così appare. Anche noi lo abbiamo visto in un bar del centro città, mentre raccoglieva alcuni fogli appena caduti dalla borsa di una signora al banco, e che ha subito sfoderato un sorriso. «Che gentile, grazie». Tutto poteva pensare, tranne a un assassino. 
Carretta oggi è l’uomo che chiede sempre scusa e grazie. Quello che porta fuori i bidoni della differenziata, che gira in autobus e in bicicletta, che si preoccupa di saldare i conti. Carretta è quello che la scorsa estate, in un momento di difficoltà, ogni dieci giorni bussava alla porta della vicina parrocchia per ritirare il suo pacco alimentare. 
«Sì è vero conferma il pluriomicida ho avuto alcuni problemi ma io sono forte e li supero. Ora infatti sto bene, lavoro, cerco di fare una vita normale più che posso». 
E dalla stessa parrocchia ribadiscono: «Nulla da dire, con noi è sempre stata una persona educata, paziente, pronta a ringraziare ogni volta che ritirava il suo pacco con dentro i generi alimentari». Ferdinando però ha ucciso, non per scopi precisi, non c’erano soldi di mezzo né particolari forti rancori. Niente di tutto questo. Era malato e per questo è stato ritenuto incapace di intendere e di volere dalla Corte d’Assise di Parma nel 1999 e rinchiuso per sette anni e mezzo nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. I giudici popolari hanno concordato sulla tesi dei consulenti di parte (Vittorino Andreoli per il pubblico ministero e Giovanbattista Cassano per la difesa) e di quello d’ufficio (Cesare Piccinini): Ferdinando uccise senza capire quello che stava facendo, in un raptus. Stessa tesi sostenuta dal pm Francesco Saverio Brancaccio, che ne aveva chiesto l’assoluzione e dieci anni di ricovero in ospedale psichiatrico. 
Un processo senza storia e senza neanche i cadaveri, seppelliti frettolosamente in una discarica nella campagna di Parma, inutilmente cercati per mesi e mesi. E senza l’imputato che non ha mai voluto andare in aula e ha preferito ripetere la sua confessione in videoconferenza. Da una saletta del carcere di Parma Ferdinando ha raccontato senza incertezze che quella sera si era «chiuso in bagno con la pistola. L’ho caricata, mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: ora o mai più». Odiava il padre, Ferdinan
do. I tre psichiatri che lo hanno esaminato hanno concluso dicendo che il giovane vedeva in quell’uomo un carnefice che gli impediva di vivere. I due litigavano spesso. Ci fu una forte rissa, fu quello il punto di non ritorno che lo spinse ad uccidere. «Ma perché mise fine anche alla vita di sua madre e di suo fratello?», gli hanno domandato i giudici. Ha risposto così: «Se avessi ucciso solo mio padre, mio fratello avrebbe poi ucciso me. In quanto a mia madre, se volevo rifarmi una vita dovevo eliminare anche lei». 
Oggi Carretta continua a chiedere di essere dimenticato: «Ogni volta che finisco sui giornali o in televisione sto molto male ammett e soffro. Vorrei essere lasciato in pace. Mi rendo conto che la cosa è stata grossa ma io ho il diritto di rifarmi una vita». 
La mente torna a Parma. Subito dopo la strage, il giovane aveva simulato l’allontanamento volontario dell’intero nucleo familiare facendo sparire il camper dei genitori. Era iniziato il tam tam degli avvistamenti e delle ipotesi fantasiose: la famiglia è partita per un tour del Mediterraneo e si è persa nel deserto. No, sono scappati tutti in un paradiso fiscale. Sì, sono alle Barbados nei Caraibi. 
Un primo colpo a queste teorie viene dato dal ritrovamento del camper a Milano: il Ford Transit dei Carretta è in un parcheggio di viale È il 19 novembre 1989. Ferdinando dopo aver depistato le indagini era fuggito a Londra, dove aveva lavorato come pony express sotto il nome di Antonio Ferdinando Carretta. Così per quasi dieci anni era calato il mistero su quella famiglia emiliana sparita nel nulla, e sulla quale indagò anche l’allora pubblico ministero Antonio Di Pietro. A tingere di rosso sangue una pagina italiana ormai sbiadita nel giallo è stata la confessione resa dall’autore della strage nel novembre del 1998: Ferdinando, anche lui dato per scomparso, venne rintracciato a Londra e da lì si ricominciò ad indagare sulla fine dei Carretta. Una stretta investigativa che l’autore degli omicidi non ha retto. 
LA CONFESSIONE 
Una sera, in una sorta di spettacolo-liberazione, Ferdinando confessò i tre delitti davanti alle telecamere del programma Chi l’ha visto?. Raccontò di aver ucciso il padre, la madre e il fratello con una pistola calibro 6.35, di aver nascosto i cadaveri nella discarica di Viarolo, dove però non vennero mai trovati. Un passato da resettare. 
Oggi Ferdinando Carretta svolge mansioni di manutenzione e servizi nella biblioteca dell’Università di Forlì. «Non faccio tante ore ma va bene lo stesso. Sto cercando di ricostruirmi una vita, adesso devo stare in mezzo alla gente e il mio passato pesa. È normale. Poi questa è una città piccola, di provincia... A Parma non tornerei, anche se lì ho ancora una zia». 
Per diversi anni Ferdinando ha lavorato per una cooperativa forlivese, anche come operatore ecologico. Nello stesso tempo era seguito da psichiatri ed educatori che hanno avuto il compito di aiutarlo nel suo reinserimento nella società. 
«Il passato non si cancella ma è passato. Non è facile, perché la gente non dimentica. Ma io ho sbagliato e pagato, ora ho il diritto ad essere dimenticato». E quando gli chiediamo di tornare con la mente a quel 1989. «Non posso farlo, non sono ancora pronto».