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 2017  ottobre 30 Lunedì calendario

La Abenomics non fa brillare i gioielli di Tokyo

I giapponesi, che non sono proprio famosi per la loro espansività, hanno racchiuso in un motto di quattro caratteri, quegli idiomi che lì chiamano yojijukugo, il senso della fallacia di tutte le cose: chi è ricco è destinato a fallire. Pur intrisa di tutta la sua buddista saggezza, la frase non dev’essere il massimo dei mantra per gli imprenditori di laggiù, sulle cui spalle ricade la responsabilità di mandare avanti la terza economia del mondo. Chi è ricco è destinato a fallire. Vogliamo provare a spiegare così l’incredibile caso che si è gonfiato intorno a Takata, il colosso degli airbag, 7 milioni di vetture richiamate in tutto il mondo, il più grande incidente del genere della storia, la più grande bancarotta di sempre in Giappone, 50 miliardi di danni potenziali da pagare, per tacere dell’orrore di almeno 17 vittime? Sì, chi è ricco è destinato a fallire: sarà per questo che i signori di Toshiba procedono con rassegnata lentezza nella vendita del miglior servizio di casa, quella divisione microchip che fa gola dalla Apple a Western Digital, e dovrebbe mettere un tappo al buco creato dall’avventura americana di Westinghouse, 6,3 miliardi di dollari buttati inseguendo il sogno del nucleare negli States? Come tutti i bravi giapponesi, Shinzo Abe, il premier appena rinvigorito dalle elezioni anticipate indette sull’onda del terrore di Kim Jong-un e la promessa di riarmare il paese, chissà quante volte avrà ripassato il mantra rubato dall’Heike Monogatari, il poema medievale che ripete appunto “joshahissui”: Chi è ricco è destinato a fallire. Mica per caso fu proprio questa la frase che Kazuo Sato mise quasi ad epigrafe di The Transformation of the Japanese Economy, saggio storico sull’ascesa del made in Japan che già a metà anni Novanta ne evidenziava profeticamente limiti e rischi: dal rallentamento della crescita che la crisi finanziaria del ’97 tragicamente confermò fino al troppo rapido invecchiamento della popolazione che ora l’Abenomics, la riforma economica del premier, sta disperatamente cercando di frenare incentivando l’industria declinante dei figli con l’asilo gratis e l’istruzione pagata ai più bisognosi. Ma se chi è ricco è destinato a fallire non sarà che cercare di evitare il fallimento è sempre inutile? Chiaro che è un puro gioco di parole e che non è solo sbagliato, ma politicamente scorretto ascrivere i fallimenti del Sol Levante alla maledizione di quei quattro caratteri. Però perfino un osservatore come John Gapper, l’autore di quel “How to Be a Rogue Trader” che inseguiva le storie degli eroi cattivi che ci portarono alla Grande Recessione, ricorre sul Financial Times al luogo comune del “perfezionismo giapponese” per farsi una ragione del superscandalo Kobe. La vergogna del colosso dell’acciaio, il terzo nel Sol Levante, che per almeno dieci anni ha falsificato i dati sulla qualità del prodotto, spingendo oggi perfino Boeing, Nissan e Ford a precipitosi controlli sulla sicurezza di auto e aeroplani, sarebbe per lui riconducibile a quel “sistema economico ermeticamente chiuso che sta raggiungendo i suoi limiti”. L’ossessione della qualità avrebbe dunque partorito questi mostri di aziende che pur di non ammettere la défaillance sono costretti a mentire. Ci convince? È vero, lo scherzetto di falsare le carte non è proprio misconosciuto lassù, e toccò al primo manager non locale, l’inglese Michael Woodford, scoprire il buco che Olympus aveva nascosto per vent’anni. Ma banditi e falsari li trovi a tutte le latitudini. E più intrigante sembra allora il ragionamento correlato a questa ossessione per la perfezione: che la ricerca della qualità per la qualità ha portato, per esempio, “i produttori di telefonini a realizzare apparecchi avanzatissimi che non sono però riusciti a competere con Apple nel software e nei servizi offerti”. Qui sì che si coglie un punto. Già colto del resto da quella colonna del made in Japan chiamata Sony. Appena pochi mesi fa l’amministratore delegato, Kasuo Hirai, aveva dovuto ammettere che il buco da un miliardo di Sony Pictures, per la precisione 962 milioni di dollari, era dovuto “a cambiamenti drammatici nel mondo dell’home entertainment”. Era il riconoscimento di una fine di un’epoca: la media company che pure già da trent’anni aveva sposato forma e contenuto producendo dvd (e lettori dvd) ma anche i film che ci finivano sopra, era rimasta indietro nella battaglia dei servizi e della distribuzione. E la promozione qualche settimana fa di Joel Kodera, da capo del PlayStation Network a responsabile di tutto il settore console che da solo fa già il 40% dei profitti della multinazionale, non è adesso un segno dello spostamento di accento dal gadget al software, dall’oggetto ai servizi, dall’apparecchio allo streaming? È il grande salto che non è riuscito a fare l’ex rivale Sharp, il marchio- simbolo dell’elettronica anni Ottanta, poi fornitore di alcuni essenziali ingredienti per Apple che pochi mesi fa, per la legge del contrappasso, si è visto comprare per il modico prezzo di 3 miliardi e mezzo di dollari proprio dai cinesi (di Taiwan) di Foxconn, finora universalmente famosi come la fabbrica, accusata anche di modi schiavistici, degli iPhone. Chi è ricco è destinato a fallire? Evidentemente anche chi nasce povero può – grazie a Dio, Confucio e tutti gli spiriti dello scintoismo – diventare ricco. E qui, si sa, la mano visibile dello stato, e quindi di Abe-san, potrebbe fare un pochino di più per migliorare il clima. Insomma: è vero che al di là delle performance non proprio brillantissime di questi storici brand l’economia giapponese è in ripresa e la Borsa ha fatto registrare 15-settimane-15 di escalation. Ma le cose incredibilmente di sinistra che il suo governo di destra promette per rilanciare l’economia, e che l’hanno aiutato non poco a vincere le elezioni – dall’aumento della spesa pubblica appunto per l’educazione al sostegno alle neomamme fino alla stretta sul superlavoro che ha arricchito i padroni senza scrupolo – stanno sollevando sulla tenuta fiscale più di un dubbio. Peraltro i giapponesi, che non sono famosi per la loro espansività, solo espandendo la politica monetaria della banca centrale sono riusciti a risollevare la testa fin qui. Sperando, manco a dirlo, di sfuggire a quel mantra maledetto: chi è ricco è davvero destinato a fallire.