Affari&Finanza, 30 ottobre 2017
Autonomia, premio fino a 42 miliardi la grande lotteria delle risorse pubbliche
Se una regione è più efficiente di altre, se fornisce servizi migliori ai suoi cittadini, se ogni anno dà come tasse allo Stato più di quanto le viene poi restituito come spese, ha o no il diritto a una maggiore autonomia, a più risorse, più poteri? E in che misura può reclamarli? Il dilemma che il referendum lombardo-veneto ci ha lasciato in eredità, è tutto qui. Starà ora al governo decidere se e quando aprire un negoziato con le due Regioni che sono andate alle urne per acquisire ventitré nuove competenze, tutte quelle che la Costituzione consente di chiedere allo Stato. Nel frattempo, Palazzo Chigi si è già impegnato a discutere l’attribuzione dei nove poteri in più che l’Emilia Romagna ha chiesto senza ricorrere al voto popolare.
A rappresentare la punta più avanzata della nuova ondata autonomista è la Regione Veneto, forte dei suoi due milioni e trecentomila “sì”. La massiccia affluenza dà al suo leader Luca Zaia la forza di rilanciare, di non accontentarsi di nuove competenze, di chiedere di più. E così alla fine lo strappo è servito: la giunta veneta vuole per la sua Regione lo statuto speciale, lo stesso goduto dal Trentino Alto Adige, dove il 90% delle tasse resta sul territorio. M a quale impatto avrebbe una eventualità del genere (per altro oggi impraticabile) sul il principio di solidarietà su cui si fonda l’unità nazionale, soprattutto se l’esempio veneto fosse seguito dalla Lombardia? E siamo poi sicuri che una maggiore autonomia riesca a conservare quella efficienza di cui Veneto e Lombardia vanno tanto fiere.
L’efficienza delle spese. Le due Regioni chiedono più poteri per due motivi fondamentali: perché ritengono di soddisfare meglio di quanto faccia lo Stato i bisogni dei propri cittadini, e perché sostengono di dare più di quanto ricevono come spesa pubblica. Numerose ricerche confermano entrambe le tesi. Mettendo insieme 25 indicatori sulla qualità dei servizi in infrastrutture, istruzione, sanità, sicurezza, ambiente e lavoro, il Centro Studi Sintesi, nella sua ultima indagine, ha elaborato una classifica che proietta sul podio, nell’ordine, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Ebbene, sono le stesse tre regioni che hanno la minore spesa pubblica pro-capite d’Italia, come dicono i dati del Tesoro: rispettivamente 2.853 euro, 2.447 e 2.704, contro una media nazionale di 3.658. La posizione in fondo alla graduatoria non cambia se la spesa pubblica si rapporta al Pil. Graduatoria che vede invece ai primi posti Sardegna, Sicilia e Calabria. Insomma, sembra proprio che in quelle tre regioni del Nord la massima qualità dei servizi resi coincida con la minima spesa pubblica. E che al Sud succeda esattamente il contrario: più spesa, meno servizi, più sprechi, come dimostra il confronto dei costi del personale che leggiamo nei bilanci regionali. Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, messe insieme, spendono per i loro dipendenti tre volte e mezzo meno di quanto paga da sola la Regione Sicilia: 450 milioni contro 1,6 miliardi.
L’istruzione innanzi tutto. In conclusione, la maggiore efficienza di quelle tre regioni del Nord, dicono i loro presidenti, andrebbe premiata con l’acquisizione di nuove competenze. Nove chieste dall’Emilia Romagna, ventitré da Veneto e Lombardia, ossia tutte quelle il cui trasferimento è consentito dalla Costituzione. Venti sono finora gestite in condominio tra Stato e Regioni (dalle infrastrutture al lavoro, dalla ricerca alla protezione civile), mentre nelle restanti tre lo Stato legifera oggi in via esclusiva: norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente e dei beni culturali, giustizia di pace. Sembra sia soprattutto l’istruzione il vero piatto forte che stuzzica l’appetito delle due Regioni. Ma anche sulla sanità l’obiettivo è quello di avere mano libera, a cominciare dalla gestione di ticket e tariffe.
Un recentissimo contributo pubblicato sulla voce.info dall’economista Andrea Filippetti, ricercatore dell’Istituto di studi sui sistemi regionali federali del Cnr, ha simulato quanta spesa passerebbe dalle mani statali a quelle delle due Regioni, in caso di acquisizione di tutte e ventitré le competenze. Si tratta di oltre 5 miliardi per la Lombardia e quasi 3 per il Veneto, con un aumento dei rispettivi bilanci del 16 e del 21%. Se però includiamo parte dei costi generali, la spesa da trasferire sale rispettivamente a 27 e 13 miliardi.
Ora, se il problema fosse solo quello di far fare alle tre Regioni parte di quello che fa oggi lo Stato, il livello totale delle spese potrebbe restare lo stesso e non ci sarebbe bisogno di trovare risorse aggiuntive. Facciamo un esempio. Poniamo che ad essere parzialmente trasferita sia la competenza sull’istruzione e ipotizziamo che all’inizio la ripartizione della spesa sia 80 a carico dello Stato e 20 a carico della Regione interessata. Se quest’ultima passasse da 20 a 50 e lo Stato da 80 a 50, la spesa complessiva non cambierebbe. A queste condizioni, il governo potrebbe anche essere disposto a discutere la cessione di qualche competenza.
La solidarietà in gioco. Il vero problema, però, è che Veneto e Lombardia non si accontentano affatto di questo travaso di poteri legislativi, ma vogliono una vera e propria autonomia fiscale. La prima reclama lo stesso statuto speciale di Trento e Bolzano con il 90% delle tasse da spendere sul territorio (richiesta ritenuta provocatoria dal governo). La seconda non indica ancora la quota da trattenere, vuole regolare ticket, canone Rai e bollo auto e guarda anch’essa al Trentino Alto Adige. A giustificare questo più penetrante livello di autonomia, sarebbe l’esistenza dei cosiddetti “residui fiscali”. Che cosa sono? Abbiamo visto prima che in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna le spese pubbliche sono piuttosto contenute. A fronte di queste spese, il gettito fiscale versato dai loro residenti è invece abbondante perché commisurato a redditi tra i più alti d’Italia. Ed ecco il motivo per cui si crea lì ogni anno un cospicuo avanzo fiscale, una differenza tra entrate e spese che finisce per essere trasferita alle regioni meno ricche. In realtà, sull’entità di questo avanzo le cifre ballano non di poco: da 30 a 54 miliardi per la Lombardia, da 9 a 15 per il Veneto. In ogni caso non si può negare che il contributo di quelle regioni al resto d’Italia, e soprattutto al Sud, sia significativo. Il quesito è: va ridotto in nome del federalismo o ha una sua giustificazione?
La giustificazione c’è ed è dettata dalla Costituzione. Se i diritti sociali devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, e se d’altra parte ci sono regioni con minore capacità fiscale perché più povere, lo Stato è tenuto a una perequazione finanziaria che serva a reperire le risorse necessarie. Insomma, i residui fiscali delle regioni più ricche vengono messi a disposizione e diventano lo strumento attraverso il quale lo Stato realizza la redistribuzione chiesta dal dettato costituzionale per applicare gli stessi diritti a tutti i cittadini. Oggi, dice la Cgia di Mestre, circa 108 miliardi passano di mano a questo scopo dalle regioni del Centro-Nord (escluse Umbria e provincia di Trento) a quelle del Mezzogiorno e allo Stato nel suo complesso. Sono in qualche modo la misura della solidarietà.
Tuttavia, è lecito chiedersi se almeno in una certa misura, i contributi dei più ricchi, che dovrebbero assicurare gli stessi servizi ai più poveri, non finiscano in realtà per coprire e perpetuare sprechi e clientelismi di talune regioni meridionali.
Questo è quanto denuncia Zaia: quando vediamo che il Veneto, regione ai vertici mondiali per la qualità dei servizi sanitari, è tenuta a trasferire parte delle sue tasse alla Sicilia, che spreca quelle risorse, tanto da costringere i suoi residenti ad andare a curarsi al Nord, non siamo più di fronte a un esempio di solidarietà, ma ad una paradossale ingiustizia redistributiva. E allora, dicono gli autonomisti, è giusto ridurre quei contributi “pseudosolidaristici”, è giusto cioè che gran parte delle tasse, invece di involarsi verso altri lidi, resti sul territorio. Il vero obiettivo è allora la possibilità di avere non più trasferimenti di anno in anno dallo Stato con destinazioni vincolate (come hanno tutte le Regioni a statuto ordinario), ma quote fisse di compartecipazione alle entrate e libertà di spesa, come in Trentino Alto Adige.
"Siamo tutti altoatesini”
“Non siamo più disposti a donare sangue a chi lo spreca”, è il motto degli autonomisti più radicali di Veneto e Lombardia, i quali tuttavia dimenticano che di sprechi sono lastricate in una certa misura anche le strade delle loro regioni: basta ricordare lo scandalo della sanità lombarda o i costi pubblici ereditati dal cattivo credito delle banche venete. E non si preoccupano se con l’autonomia fiscale, insieme all’acqua sporca degli sprechi altrui, finiscono per buttare via anche il bambino della solidarietà nazionale. Basta fare qualche calcolo sui dati della Cgia di Mestre per concludere è che se due regioni di peso come Veneto e Lombardia trattenessero i nove decimi delle loro tasse in loco, il loro contributo alla solidarietà nazionale, calcolato oggi in 67 miliardi l’anno, si ridurrebbe del 62%, ossia di ben 42 miliardi. Che verrebbero tolti alle regioni meno ricche.
Infine, siamo sicuri che avere uno statuto speciale sia sinonimo di efficienza? Oggi la Sicilia, che trattiene il 100% delle proprie tasse, è probabilmente la regione più inefficiente d’Italia. E che dire della provincia di Bolzano che, pur fornendo ottimi servizi, paga per i suoi dipendenti 1 miliardo 23 milioni contro i 146 milioni del Veneto? Bolzano è in testa anche per la spesa pubblica complessiva per abitante con 8.679 euro, tre volte e mezzo quella lombarda. Un sospetto a questo punto si fa strada: quello che dietro la voglia di autonomia fiscale ci sia proprio la tentazione di aumentare le spese pubbliche senza i paletti statali, o di abbassare le tasse a piacimento. Il Trentino Alto Adige è lì ad alimentare i sogni della giunta veneta: quella Regione può spendere per il turismo 95 miliardi contro i 17 del Veneto; può dare a un dottorando una borsa di studio fino a 700 euro al mese, e a un insegnante 2.480 euro contro i 1.697 del Veneto; può concedere a un’impresa in fase di avvio contributi a fondo perduto fino al 40% della spesa. Il problema è che se il nuovo motto autonomista di veneti e lombardi “siamo tutti altoatesini” fosse alla fine esaudito, il rischio di veder polverizzarsi in un colpo solo solidarietà nazionale e sostenibilità dei conti pubblici sarebbe più che probabile.