La Stampa, 31 ottobre 2017
Pochi soldi e viaggi in treno. Quando la Juve era soltanto un sogno
Sul nome ci fu battaglia: Iris Club, Società Polisportiva Augusta Taurinorum, Forza e Salute, Vigor et Robur..., le proposte fioccavano. Nella seduta decisiva erano rimaste tre opzioni: Società Via Fort, Società Sportiva Massimo d’Azeglio, Sport Club Juventus. «Per quest’ultimo nome pochi simpatizzavano, ragione per cui riuscì ad imporsi». Così, con ironia, ricordava alcuni anni dopo Enrico Canfari, uno dei padri fondatori, invitato a «far conoscere a questi bravi giovani le origini e le glorie della nostra bella Juventus».
Chi lo direbbe che una delle società di calcio più potenti e blasonate al mondo, una macchina da scudetti e da soldi, la più amata e (va da sé) la più odiata d’Italia sia nata da un gruppo di ragazzotti torinesi un po’ smandrappati che si riunivano in corso Re Umberto 42, in mezzo agli attrezzi dell’officina meccanica dei più anziani tra di loro, il ventenne Enrico e il diciannovenne Eugenio Canfari, i fratelli che all’inizio si passarono la presidenza. Tutti gli altri, una quindicina, erano studenti del vicino liceo classico D’Azeglio, ragazzi tra i 13 e i 17 anni, che alla fine dell’800, non potendosi inventare Google o Facebook, diedero vita a una start-up chiamata Juventus.
Era l’autunno del 1897, 120 anni fa. La data del 1° novembre è convenzionale, scelta ex post per avere un giorno da celebrare. Le glorie erano di là da venire. Anche se i tempi aurorali in cui qualche cosa nasce, cementandosi nell’amicizia fraterna e nel giovanile spirito goliardico, portano sempre con sé un alone struggente che ingigantisce i ricordi.
Il calcio all’epoca era una novità, importata nel 1891 in Italia, a Torino, da un giovane ragioniere, Edoardo Bosio, che se ne era invaghito in Inghilterra. I ragazzi del D’Azeglio lo avevano visto praticare intorno al laghetto del Valentino, che d’inverno diventava patinoire – quella frequentata da Gozzano, che vi dedicò il quadretto poetico di Invernale. Ma non era il calcio, all’inizio, l’unica attività della Juventus, che, recitava all’articolo 1 lo Statuto sociale, «ha per iscopo lo sviluppo d’ogni ramo dello Sport». E per qualche anno la contesa tra «foot-ballers», podisti e ciclisti fu un altro motivo di discussioni.
Trovato il nome, il primo problema fu quello del capitale sociale: proposto e approvato un tributo di una lira al mese, parecchi fondatori se la diedero a gambe. Secondo problema: la sede. Per sei lire mensili i Canfari trovarono un locale in via Montevecchio – sempre in zona Crocetta-San Secondo -, «quattro camere, un cortile, una tettoia, una soffitta, provvisto di acqua potabile» che però non scorse mai. La stanza adibita a palestra aveva il pavimento di terra battuta. Per mobilio, ricordava «Rico», «qualche sedia sfondata, una cassetta», due panche e un tavolo fabbricati dai fratelli, trasformatisi in falegnami. Al riscaldamento provvedevano i soci, portandosi da casa qualche pezzo di carbone. C’era anche un libro-reclami che si riempiva quotidianamente di proposte, proteste, battibecchi.
Intanto arrivano i primi inviti, le prime sfide, e le prime batoste. L’undici da mandare in campo veniva messo insieme reclutando i soci disponibili, alle trasferte si andava con il treno, aspettando magari fino a notte quello meno caro, e con un cestino per il vitto. Come divisa, un percalle rosa completato dal berrettino di piquet bianco «alla savoiarda», fascia nera alla cintola, pantaloncini e cravatta dello stesso colore. Si dovette aspettare il 1903 perché, da Nottingham, arrivassero le maglie bianconere – non si sa bene se per caso, per sbaglio o per scelta consapevole. E il 1905 per vincere il primo titolo italiano, con una squadra che metteva insieme rampolli dell’aristocrazia e dell’alta borghesia con operai e figli di operai.
Ma fu un fuoco isolato. Soltanto dopo l’avvento degli Agnelli, nel 1923, la Juventus diventò quella che oggi conosciamo. Nel frattempo i primi soci si erano laureati, erano diventati affermati professionisti, e Rico, volontario nella Grande guerra, era caduto a 38 anni sull’Isonzo. Non prima di avere affidato a una lettera dal fronte il suo legato ai compagni di fede: «L’anima juventina è un impasto di sentimenti: di entusiasmo, di educazione, di bohème, di cuore, di affetto, di fede nella ns. volontà di esistere e continuamente migliorare, soprattutto di allegria e di cuore (…). Siate juventini!».