Il Messaggero, 31 ottobre 2017
Altro colpo per Trump, la Corte federale lo boccia: i transgender possono fare il militare
NEW YORK Una giudice del distretto di Washington ha sospeso ieri l’ordine con il quale la scorsa estate Donald Trump aveva deciso di bloccare l’accesso dei transgender al servizio militare. La signora Colleen Kollar Kotely ha paralizzato due delle disposizioni contenute nel memorandum che Trump aveva emesso a fine agosto, un mese dopo gli attacchi che aveva lanciato a partire da Twitter. La prima è quella che chiede l’allontanamento dal servizio per chi è transgender, e la seconda impone il rigetto delle nuove domande di ammissione presentate da future reclute transgender.
Resta invece in vigore, anche se legato ai tempi di risposta del Pentagono che lo stesso Trump aveva disegnato, il rifiuto dello stato di pagare le spese mediche associate al cambiamento di sesso.
Nell’annunciare il decreto, il presidente aveva dichiarato che l’amministrazione Obama non aveva considerato a fondo le implicazioni dell’apertura decisa dal ministro per la Difesa Ash Carter nel giugno del 2016, con la quale si ammetteva che una persona che ha cambiato sesso o si trova nel mezzo del percorso, potesse apertamente dichiarare il suo stato mentre era in servizio con le Forze Armate degli Stati Uniti. Carter aveva anche deciso che fosse lo Stato a pagare il costo dei trattamenti medicinali e persino dell’intervento chirurgico necessario per completare il processo.
IL RICORSO
La nuova disciplina prevedeva un anno di preparazione perché il Pentagono approntasse le misure necessarie per applicarla. Prima che il termine scadesse, l’attuale responsabile del dicastero Jim Mattis aveva esteso l’attesa di altri sei mesi fino agli inizi di gennaio. Poi è intervenuto Trump a complicare la situazione.
Un folto gruppo di attuali militari transgender ha impugnato il memorandum Trump sulla base dell’articolo quinto della costituzione statunitense, quello che difende i suoi cittadini contro ogni tentativo di forzare la loro testimonianza in procedimenti che li riguardano. L’obbligo di dichiarare il proprio genere sessuale richiesto dal decreto Trump, secondo la giudice cade sotto questa categoria, e come tale deve essere rigettato.
Dietro l’altalena delle pergamene presidenziali e delle carte processuali, c’è il dramma di circa 15.500 militari attualmente arruolati nei ranghi delle Forze Armate. Molti si sono precipitati nell’ultimo anno a fare domanda: molti altri vantano una militanza decennale, coperta dal vecchio regime del don’t ask, don’t tell disegnata dall’ex presidente Bill Clinton. Tutti hanno un alto livello di integrazione, come hanno ripetuto più volte esperti militari, gli stessi generali che li comandano, e i vertici del ministero per la Difesa che li amministrano. La loro sorte dallo scorso agosto è di nuovo nel limbo, mentre il Pentagono sta studiando una sua risposta al decreto. Nessuno finora è stato mandato a casa in base ad esso, ma tutti rischiano di dover dichiarare il proprio genere, e su quella base accettare l’espulsione. All’incertezza burocratica ora si aggiunge quella legale. Con ogni probabilità l’ingiunzione della giudice Koteli sarà impugnata dall’amministrazione di fronte alla corte suprema, e solo il parere definitivo dei nove massimi togati tra molti mesi risolverà la questione.