D - la Repubblica, 21 ottobre 2017
Lucrezia Reichlin, i numeri e l’amore
Sbuffa, posando sul tavolo da cucina una mozzarella enorme: «Basterà?». Nel fine settimana arrivano ventuno inglesi da sfiimare. E ce quel problemino logistico, oltre alle tonnellate di vivande da mettere a posto. Lucrezia Reichlin si precipita giù per gli scalini, raggiunge il salotto, agguanta il telefono: «Dove li sistemiamo?». Forse c’è l’amico di un amico che affitta in fondo alla strada. In due minuti è tutto risolto, evviva, la tribù è sistemata. La più importante economista italiana si sposta distrattamente una ciocca di capelli dagli occhi e ride sollevata: «Fatto». A pochi mesi dalla morte di Alfredo Reichlin, leggendaria figura del Pei, sua figlia Lucrezia si è rifugiata nella casa in campagna del padre, immersa nei boschi umbri. Tipicamente, la sta riempiendo con la confusione e il chiacchiericcio degli amici che la accompagnano ovunque, che sono sempre i benvenuti. «Questo fatto della famiglia allargata, di considerare la mia casa un posto aperto, l’ho ereditato da mia madre Luciana e da mia nonna Lisetta. Ho sempre voluto essere generosa come loro. A casa mia, a Londra, c’è sempre una stanza per chi passa da lì, amici che magari si fermano per mesi».
Anche la madre, Luciana Castellina, grande intellettuale comunista e co-fondatrice del Manifesto, quest’estate è scappata dall’afa romana, è andata al mare e si è portata gli amici e la figlia adottiva di Lucrezia, Fushu. «A un certo punto è arrivata anche Rossana Rossanda, sono legatissime da cinquant anni. Mia madre è incredibile, fa sentire chiunque a casa».
Lo stesso metodo della tribù, Lucrezia lo ha adottato per il suo lavoro. In mezzo alle esperienze istituzionali e accademiche, l’economista romana non ha mai smesso di sperimentare. Spesso, lavorando gomito a gomito con altri. «Mi piace tantissimo fare squadra. Uno dei miei allievi più importanti, Domenico Giannone, a Bruxelles era talmente spesso a casa mia a lavorare su progetti vari che si era affittato un appartamento a due passi. E mia figlia Fushu faceva i disegnini con “mamma, papà e Domenico”».
Ci sediamo fuori con una caraffa d’acqua e scorriamo velocemente la sua bio. Carriera folgorante, ma sempre irrequieta. Da anni insegna alla prestigiosa London Business School. Ma è come se la ricerca o l’insegnamento da soli non fossero mai bastati. Certo, nelle classifiche internazionali il nome di Lucrezia svetta ormai da decenni e il Fondo Monetario Internazionale l’ha addirittura definita “Li regina dei numeri”. Lei si limita ad annuire, intrecciando le mani: «Li ricerca per me è una cosa estremamente emozionante». Ma i suoi continui scarti verso nuovi lidi, verso nuove sfide, la rendono piuttosto unica nel panorama internazionale degli studiosi della “scienza triste”.
Negli anni Lucrezia ha conquistato ruoli di primissimo piano anche nelle banche private è tuttora consigliere indipendente di Unicredit e della greca Eurobank – o nelle grandi banche centrali. Negli anni scorsi, 1’hanno candidata alla vicepresidenza della Banca d’Inghilterra, dieci anni fa è stata la prima capa della ricerca donna della Banca centrale europea. Era stata chiamata nel tempio dei sacerdoti dell’euro da un austero tedesco, Otmar Issing. Unica donna in mezzo a un muro di cravatte. Una costante, nella sua vita.
«Issing fece una scelta coraggiosa: mi prese da fuori, non era scontato», ricorda.
Peraltro, nei corridoi della Bce, si mormora ancora di quel duello tra italiani. Il candidato di Roma era Ignazio Angeloni, attuale consigliere della Vigilanza europea, allora vicedirettore della ricerca, sostenuto dal membro italiano del board della Bce, Tommaso Padoa-Schioppa. Lei ebbe la meglio come outsider. Il suo passaporto italiano non contò per farla vincere, anzi.
Un’altra costante della sua vita.
I tedeschi la temono, ma la adorano. «La Germania mi ha dato tanto, ma non essendo un’economista molto ortodossa ogni tanto li ho scandalizzati», ridacchia. In un Paese dove il merito conta, è stata chiamata da Issing alla Bce e i giornali ricordano costantemente che nei ranking internazionali è tra le prime dieci cconomiste al mondo. Certo, non sono mancati momenti di polemica, che produssero per esempio una decina di anni fa un leggendario titolo dell’Handelsblatt: “La Bella e la Bestia”. Dove la Bella era ovviamente lei, la Bestia l’inflazione. Reichlin aveva rotto un tabù, sfidando la teoria – sacra per i tedeschi – secondo la quale c’è un nesso automatico tra moneta e inflazione. E lo disse mentre era ancora a capo della ricerca della Bce. Apriti cielo. Negli anni del movimentato andirivieni tra Francoforte, Bruxelles, Londra e Milano, Lucrezia ha sviluppato alcuni indicatori fondamentali per interpretare la realtà attraverso i numeri. Ha inventato un meccanismo di previsione a brevissimo orizzonte, il Nowcosting, che viene adottato dalle principali banche centrali del mondo e che oggi la sua società basata a Londra vende ai fondi di investimento americani e inglesi, affamati di stime tempestive sul futuro immediato. «Un mio maestro è stato Marco Lippi, sin dai tempi di Modena. Ci cominciammo a chiedere con lui come trovare la sintesi quando hai a disposizione miliardi di dati, come incanalarli, quali modelli sviluppare. Fu un po’ l’inizio, se vuoi, dei Big data in economia».
Non di rado, però, Lucrezia è scappata. Gli anni Settanta la stavano “soffocando”, erano diventati “una trappola”. È cresciuta in una famiglia di personalità forti: «I miei erano comunisti, mio padre veniva a pranzo con la Fiat 1100 del partito, di sera non c’era mai perché chiudeva il giornale, XUnità». Di Alfredo Reichlin, Lucrezia sostiene di aver assorbito soprattutto un insegnamento: «Ci diceva che dovevamo sentirci la responsabilità di essere classe dirigente, che dovevamo sforzarci di capire l’Italia, che dovevamo studiarne a fondo la storia». In un’era di polemiche surreali sulla presunta inutilità della cultura umanistica e del liceo classico, le chiediamo se il fatto di essere cresciuta tra intellettuali e la frequentazione del liceo più “tosto” di Roma, il Tasso, non l’abbiano aiutata a non diventare mai un Fachidiot come dicono i tedeschi, «idiota della materia», prodotto tipico dell’attuale tendenza all’iper-specializzazione. «Per me, che venivo da una cultura umanistica – anche lo studio dell’economia, all’epoca, era molto storico e poco teorico – è stato importante specializzarmi, andare in America, dove si studiavano tanto i modelli. Però, sì, è vero che quella provenienza mi ha sempre consentito di guardare di là del mio naso, di allargare gli orizzonti e cercare nuove sfide».
Da giovanissima, era il 1978, Lucrezia sente l’esigenza insopprimibile di lasciare l’Italia. «Me ne andai in un anno terribile, quello del rapimento Moro, del terrorismo, quando le speranza del ’68 si erano rivelate, ai miei occhi, piuttosto effimere. L’Italia era totalmente ripiegata su se stessa. Un po’ scappavo anche da una famiglia in cui non si parlava d’altro che di politica. Io avevo sete di cambiamento, di imparare cose nuove, totalmente diverse». E poi e era – e c’è ancora – la questione delle donne. «Dai tempi della scuola ho sempre avuto la sensazione che le donne in Italia non fossero trattate in modo eguale. Negli anni del Tasso, in cui tutti eravamo molto impegnati e politicizzati, avevo l’impressione che tra gli uomini ci fosse implicitamente la falsa consapevolezza di essere superiori intellettualmente, che tra di loro ci fosse un’intesa immediata che escludeva le ragazze». Lucrezia, venendo da una famiglia “diversa“– «Mia madre era una donna molto moderna, libera» – sottolinea di aver sempre «capito poco certi comportamenti maschili, che combinavano insicurezza sessuale a mal celato senso di superiorità. E la misoginia dell establishment italiano, soprattutto nel mondo economico e finanziario, è enorme anche oggi».
A Modena, studiò economia. «Lì venni a contatto con il proverbiale nord operoso, ordinato, con un pezzo di Italia che non conoscevo», negli Stati Uniti invece familiarizzò con la teoria. «Per anni ho lavorato solo su questioni accademiche, ma gradualmente mi sono interessata a problemi di misurazione e previsione che hanno importanza per le decisioni di politica monetaria delle banche centrali e oggi, sempre più, ai problemi del futuro dell’euro e all’interazione tra finanza e economia reale». Negli anni scorsi, Lucrezia ha fondato a Siracusa una Business School che attira economisti da tutto il mondo. Un modo per tornare in Italia? «Per me la vita, finora, è stata come il viaggio di Ulisse: ho sempre pensato che alla fine sarei tornata. Non e stato così: oggi faccio molte cose in Italia, ma la mia base di vita non sarà più qui».
Poi, aggiunge, «C’è la mia felicità: mia figlia Fushu. Oggi per me l’impegno principale è comunicarle come conciliare cosmopolitismo e identità, come condividere con lei quello che ho capito io». Lucrezia ha adottato Fushu quando era piccolissima. «Andai a prenderla in Cina, in un istituto dove i bambini attendevano le loro famiglie adottive. Io ero lì, con la sua foto in mano, emozionalissima. A un certo punto la scorsi dietro un divano. Si nascondeva, era terrorizzata. Mi avvicinai piano piano. Dopo un primo momento di rifiuto, si aggrappò a me con tutte le sue forze. Per settimane non si staccò mai, neanche per un istante: è stata come una gestazione. Da allora, io e Fushu non ci siamo lasciate più».