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 2017  ottobre 28 Sabato calendario

Vent’anni dalla prima maglia azzurra. Gigi Buffon, il giorno che chiude il cerchio

Ora che Buffon ha detto ad alta voce di essere pronto al ritiro, il corto circuito è completo.
Stasera scende in campo per la prima volta dopo aver detto: «Nel 2018 smetto, Cambio idea solo se vinco la Champions». Cosa che ovviamente può succedere, ma non cambia la consapevolezza di una decisione presa e consegnata al mondo pochi giorni prima di una data importante. Una di quelle che fa pensare e stimola i bilanci. Domani scattano i 20 anni dalla prima presenza in nazionale capitata nel playoff di andata di uno spareggio per la qualificazione ai Mondiali. Esattamente la stessa partita che il portiere si ritrova davanti al prossimo appuntamento azzurro e in questi venti movimentati anni la situazione non si era mai riproposta. Succede in zona anniversario, nella stagione battezzata come ultima di una carriera partita dal talento e costruita sul senso di appartenenza. Patria, maglia, curva: identificarsi con il pubblico che lo segue, con la squadra per cui gioca, con la nazione che rappresenta è sempre stato il faro di Buffon che ora vive ogni sfida con un’intensità speciale e una serenità assoluta.
Leva calcistica doc
Quando i grandi campioni piazzano il traguardo sbandano sempre. Almeno un po’. Bolt non ha retto gli ultimi 100 metri, Phelps ha programmato male il giorno del saluto e infatti l’ha cambiato ripresentandosi in vasca per un’Olimpiade extra. Buffon ha vacillato, a tratti, nelle prime uscite di un’annata diversa. Nel 2017-2018 hanno dato l’addio (o l’anuncio dell’addio) al campo Totti, Pirlo, Lampard, Lahm, Xabi Alonso, Kaka: è una leva calcistica pesante ed è la stessa di Buffon che si aggiunge all’elenco anche se si lascia una singola combinazione capace di disinnescare la scelta.
Milan-Juve è una delle sfide che hanno segnato il suo successo, solo che ormai le gare fondamentali, le svolte, i brividi, gli stadi pieni, sono così numerosi che è difficile districarli. Così potenti che servono da strato protettivo tra Buffon e le critiche e i dubbi e gli errori e gli anni. Nei momenti difficili c’è l’esperienza e anche il confortante ricordo di essere già passato da ogni incrocio complicato. Di aver già sperimentato più o meno tutto. Persino uno spareggio mondiale.
Da qui la certezze di non dipendere da ogni singola parata, dai miracoli celebrati come dalle uscite a vuoto chiacchierate. Da qui la forza per vivere un’altra stagione che lui vuole ancora straordinaria. E non è un desiderio, è un obiettivo razionale su cui lavora con estrema lucidità. Emotivo fuori dai minuti ufficiali e concentratissimo durante. Da sempre, da quel 29 ottobre 1997, un flashback che gli tornerà in mente a più riprese in questi giorni. Lui in braghe corte nello stadio gelato della Dinamo Mosca, con la palla fucsia dietro a una difesa ideale: Costacurta, Nesta, Maldini, Cannavaro. Ha 19 anni e già lo chiamano Superman, del resto gioca in serie A da un po’, nel Parma finta isola felice.
Succedono cose strane e potenti in quel periodo: Dario Fo ha ricevuto il Nobel pochi giorni prima, Lady D è morta in quell’estate, la stessa in cui hanno sparato a Versace. Un ragazzino con la frangia entra al posto del numero uno titolare, Pagliuca, nel confronto che tutti gli italiani temono. E nessuno trattiene il respiro. Fiducia immediata.
De Rossi ha 14 anni e guarda la tv con gli amici delle giovanili della Roma. Non è Capitan Futuro, ma Nino perché ha il caschetto alla Nino d’Angelo. Insigne ha sei anni e sta sul divano di casa con il papà che lo chiama affettuosamente «nano». Oggi sono due compagni di viaggio in nazionale, allora erano tifosi. Forse è quando pensa a queste distanze che Buffon ha voglia di smettere, forse sa che non c’è più niente da dimostrare anche se è rimasto qualcosa da vincere: condizione perfetta per spremere il meglio all’età per qualche altra partita.