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 2017  ottobre 28 Sabato calendario

Se Amazon ha le chiavi di casa

ROMA Comprereste un portinaio da Amazon per 250 dollari? Perché questa è l’offerta di Amazon Key, il combinato disposto di una web cam collegata a un lucchetto intelligente che aprirà la porta ai corrieri quando non siete in casa. Basterà che il fattorino (per il momento solo quelli alle dirette dipendenze dell’azienda) mostri il codice a barre del pacco, che la telecamera verificherà, per consentire l’accesso. Sebbene la raccomandazione operativa sia quella di aprire la porta giusto il minimo indispensabile per fare entrare la scatola, possibilmente senza varcare la soglia.
Cautela che non è bastata a evitare le polemiche. Divampate, con una bella prova di indipendenza giornalistica, sul Washington Post di cui Jeff Bezos, il fondatore del sito di commercio elettronico, è editore. “Nella vita non c’è solo la comodità” si legge nell’editoriale molto critico di Christine Emba che le antepone privacy e sicurezza, “forse qualcuno dovrebbe dirlo alla Silicon Valley”. E in un tweet citato dal giornale c’è già chi riassume così: “Un nuovo servizio che consente a un estraneo di entrarti in casa, nascondersi nell’armadio e ucciderti nel sonno. Gratis con Prime!”. Che è un po’ una forzatura perché la telecamera registra le mosse del fattorino sino a quando esce, ma fa capire bene il clima surriscaldato dall’ultima trovata del soluzionismo – copyright Evgeny Morozov – tecnologico.
D’altronde, nella logica del negozio che ha fatto del rapporto fiduciario con il cliente la propria (vincentissima) ossessione, chiederci le chiavi era solo l’ultima formalità. Perché nelle nostre case, che ce ne accorgiamo o meno, ci è già entrato da tempo. Con Alexa, il microfono sempre acceso che registrando i nostri ordini impara anche le nostre abitudini. O con Amazon Look, una telecamera nella quale specchiarci per ricevere consigli su come abbinare i vestiti ma anche per capire, come ha fatto notare la sociologa di Harvard Zeynep Tufekci, se siamo depressi o euforici e proporci acquisti che assecondino l’umore del momento. Il campione dell’ecommerce non è certo il solo a capitalizzare (o tradire) la nostra fiducia. Nelle ultime settimane Facebook ha ufficializzato un servizio che consentirà a un certo marchio di recapitare una pubblicità mirata a chi ha già visitato un suo negozio tradizionale. Come fa a saperlo? Gliel’ha detto il Gps nel nostro telefono, incrociato con gli indirizzi dei negozi. Così il vecchio fossato tra online e offline viene colmato. Mentre uno studio dell’università di Washington che sarà presentato a giorni in un convegno sulla privacy a Dallas dimostra quanto poco (1000 dollari) costi, per un hacker medio, seguire le tracce di una persona intercettando le pubblicità geolocalizzate con cui le varie app gratuite si finanziano. Questo per limitare il campionario alle ultime settimane. Fino a che punto ci spingeremo nel diventare i volenterosi carnefici della nostra riservatezza digitale? Per Giovanni Boccia Artieri, docente a Urbino, «siamo disposti a rinunciare a quella parte di privacy che non riteniamo abbia a che fare con i dati strettamente personali o con il loro accesso, mentre siamo meno attenti alla privacy espressiva, che riguarda i nostri comportamenti sociali più pubblici». Quella, per intenderci, che svendiamo quotidianamente sui social network: «Per questo strumenti che analizzano i dati per facilitare acquisti o fare scelte li viviamo come assistenti personali: il loro controllo su di noi è meno visibile e li tolleriamo di più». Anche perché spesso non ci rendiamo esattamente conto dei termini dello scambio. Una bella bici è sparita dal giardino di una mia amica la mattina della consegna di un pacco. Non ha prove, però registra la coincidenza. E aveva solo aperto il cancello. Comodo è bello. Ma anche sicuro non è male.