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 2017  ottobre 30 Lunedì calendario

Ma le tasse c’entrano? Quale negoziato post referendum

«Acquaiolo, l’acqua è fresca?», «Come la neve». «Lombardi e veneti, volete che le imposte da voi pagate restino nella vostra terra?», «Certamente». L’antica saggezza napoletana faceva prevedere che i referendum del lombardo–veneto avrebbero avuto un esisto positivo. Ma è ora importante sapere che cosa succede. Cominciamo col dire che, come quasi sempre, i referendum hanno una logica binaria apparente. Per lo più non si risponde alla domanda posta, ma ad altre domande, per cui essi si prestano a una varietà di usi. La domanda posta era: volete richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia con le relative risorse? Questa domanda si riferiva all’articolo 116 della Costituzione, secondo il quale «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata». Tuttavia, nella campagna referendaria si è spiegato che le due regioni hanno un «residuo fiscale» positivo, nel senso che i relativi cittadini contribuiscono alle imposte raccolte nelle due regioni più di quanto lo Stato conferisca sul territorio in termini di servizi. Quindi, chi ha votato ha inteso far capire di aver diritto a maggiori e migliori servizi, pagati con proventi dai tributi che oggi vanno invece a vantaggio delle regioni che hanno un residuo fiscale negativo (quelle del Sud). 
Se anche questo referendum, come tutti quelli svolti di recente (Colombia, Ungheria, Thailandia, Regno Unito, Italia), nasconde qualche ambiguità, la procedura aperta con i due referendum, tracciata dalla Costituzione, è chiara: occorre una intesa tra lo Stato e ciascuna regione, e poi una legge votata dal Parlamento a maggioranza assoluta. Insomma una procedura simile a quella innescata, con minori clamori, dalla Regione Emilia–Romagna. 
Problemi 
A quel punto, sorgono i veri problemi. Questi riguardano le materie sulle quali le regioni richiedono maggiore autonomia. L’elenco è vasto, e le regioni non hanno sottoposto a referendum una scelta tra le materie, che è il vero punto sul quale occorre decidere. Qui ci si può chiedere: ha adeguata giustificazione che le due regioni abbiano ulteriori forme e condizioni di autonomia nella materia dei rapporti internazionali? Si può pensare che le reti nazionali di trasporto e comunicazione, comprese quelle dell’energia elettrica, siano ordinate ad Arlecchino, sotto regioni diverse? Mentre il controllo del credito è trasferito all’Unione bancaria europea, si può ampliare il controllo regionale su casse di risparmio a carattere regionale e enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale? I beni culturali non sono un patrimonio nazionale, che richiede l’intervento statale e non tollera ulteriori competenze regionali? Sono questi i veri interrogativi ai quali occorre ora rispondere, ai quali se ne aggiunge un altro, quello della utilità di accentuare la diversificazione territoriale in uno Stato che presenta già sufficienti divari, che non riesce a colmare, nonostante gli sforzi fatti in più di centocinquanta anni. 
Il secondo ordine di problemi deriva dall’inciso del testo referendario che richiede l’assegnazione di nuove forme di autonomia «con le relative risorse» (un inciso non presente nella Costituzione). Anche a voler seguire il ragionamento delle regioni proponenti, quello fondato sul «residuo fiscale» positivo, occorre rifare bene i calcoli: nel mettere a raffronto imposte percepite e spese erogate nella regione, bisogna calcolare solo la spesa regionale, non anche quella dello Stato e di altri enti pubblici? Non va calcolata una quota da riservare alla solidarietà interregionale (considerando che anche dei fondi europei per le politiche di coesione è destinato al Sud l’80 per cento). 
Tra specialità e solidarietà 
C’è, infine, da considerare un ultimo problema, quello del tasso di differenziazione ammissibile tra zone diverse di un territorio che fa parte di una nazione unitaria. Il presidente della regione Veneto pare aver subito corretto la richiesta postreferendaria di trasformare il Veneto in regione a statuto speciale. Ma la specialità delle cinque regioni che godono di un diverso statuto (Sicilia, Sardegna, Friuli–Venezia Giulia, Alto Adige, Valle d’Aosta), che trova le sue origine in motivi di carattere storico, ha perduto gran parte della sua ragion d’essere dopo quasi mezzo secolo di esperienza di uno Stato a struttura regionale. È possibile, ora, e in quale misura, introdurre differenziazioni governate dal centro, modificando il riparto di competenze Stato–regioni, per singole regioni, anche se classificate tra quelle «virtuose»? Quale è il punto di non ritorno di uno Stato unitario, dove si ferma la necessaria solidarietà tra regioni ricche e regioni povere, dove iniziano a perdere anche le regioni ricche se le regioni povere si impoveriscono ancora di più? 
Questi sono problemi importanti, che vanno affrontati con serietà nel negoziato che ora si apre, dopo il referendum.