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 2017  ottobre 30 Lunedì calendario

I padroni segreti del listino

Il 13 settembre del mese scorso potrebbe passare agli annali di Piazza Affari come la data di una rivoluzione inconsapevole. Quel giorno la Consob, l’autorità di controllo delle società quotate, ha pubblicato una decisione di 22 pagine che in apparenza riguarda un’unica azienda: Tim, l’ex Telecom Italia di cui da poco meno di un anno il gruppo francese Vivendi è di gran lunga primo azionista con una quota del 23,9%. Quella pronuncia della Consob e la sua genesi potrebbero in futuro essere ricordate come un punto di svolta per il capitalismo italiano, le cui conseguenze vanno
molto oltre il gruppo telefonico. Piazza Affari ha iniziato ormai da tempo un lungo viaggio verso la trasparenza degli assetti di controllo e adesso la crescita degli investitori stranieri sta accelerando la metamorfosi in questa direzione. Poco importa che a volte succeda contro la loro stessa volontà. 
Tutto nasce con quello che da principio, almeno in apparenza, sembrava poco più che un atto di burocratica insubordinazione. Il 20 gennaio di quest’anno, a seguito della scalata strisciante di Vivendi sotto le soglie dell’Opa e del rinnovo del consiglio d’amministrazione, il collegio sindacale di Telecom-Tim invia una segnalazione alla Consob: il gruppo francese e quello italiano sono parti correlate – afferma – perché il primo esercita il controllo «di fatto» sul secondo; lo fa anche se le sue quote sono inferiori a quelle che farebbero scattare un’offerta pubblica di acquisto sulla totalità del capitale. 
Vivendi si dissocia dall’organo di vigilanza interno dell’azienda italiana, ma non basta. La Consob, il mese scorso, ha confermato l’interpretazione dei sindaci: i francesi non si limitano ad esercitare una «influenza notevole» sul gruppo italiano; ne hanno anche un «controllo di fatto». Anche se si sono fermati sotto alla soglie del 30% del capitale (che fa scattare l’Opa) o a quella del 50% (che garantisce sempre e comunque il predominio nell’assemblea dei soci). Le conseguenze per Vivendi di una decisione del genere sono potenzialmente profonde. La condizione di controllo di fatto potrebbe obbligare il gruppo di Parigi a consolidare i conti (e i vasti debiti) di Tim dei propri bilanci, anche se su questo pende una pronuncia dell’Autorità dei mercati finanziari francese. Di certo la mossa della Consob ha permesso al governo di esercitare la golden power sulle attività strategiche e delimitare il margine di manovra di Vivendi sul gruppo di telecomunicazioni, quale che sia l’esito del ricorso transalpino. 
Di certo però tra poco emergeranno le conseguenze di questo precedente per l’intero capitalismo italiano. È infatti la prima volta che l’autorità di vigilanza sancisce il «controllo di fatto» di una società quotata di questa importanza da parte di un socio convinto, fin lì, di viaggiare sotto ai radar.
Ed è la prima volta che si registra l’ammutinamento di un organo di vigilanza interno, che
arriva ad appellarsi alla Consob perché l’autorità faccia luce sul ruolo del suo primo socio. 
Non è un caso se tutto questo accade con un investitore estero e in un’azienda strategica del Paese. Ma ora è successo. E con il tempo il precedente potrebbe valere anche per molte società puramente italiane. Una prima ricognizione indica infatti che fra le quotate di Piazza Affari ce ne sono almeno 45 per le quali il «controllo di fatto» potrebbe essere ipotizzato. Senza certezze a priori che esso sussista, ma con la possibilità per la Consob di avviare un ciclo di verifiche sulle aziende del listino. 
I casi ai quali guardare non mancano. Banca Finnat Euramerica per esempio presenta una serie di azionisti tutti sotto le soglie ma tutti parenti fra loro: Arturo Nattino al 21,6%, Andrea Nattino al 16,8%, Giulia e Paola al 12%. In questo è simile il caso di Basic Net, il gruppo fondato da Marco Boglione che controlla marchi celebri come Robe di Kappa, Superga, K-Way o Jesus Jeans. Nel gruppo Marco Daniele Boglione ha il 33,6% e Francesco Boglione il 6,2%. Casi simili nella Borsa italiana sono frequenti e non corrispondono quasi mai a un riconoscimento esplicito del controllo, con i relativi obblighi contabili, fiscali e di comunicazioni societarie. 
Ma davvero è così negativo? Vincenzo Cariello, docente di diritto commerciale all’Università Cattolica di Milano, studioso di governance e controllo societario e tra l’altro sindaco di Tim, è convinto che in gioco ci sia soprattutto la trasparenza del sistema. In un recente saggio sul tema, Cariello scrive che «il controllo cosiddetto di fatto nella realtà italiana sembra spesso rarefatto, opaco, sfuggente, non dichiarato e non accertato». Il rischio, aggiunge lo studioso, è quello dell’«immobilismo, dell’indisponibilità o delle crescenti difficoltà nel rivelare le posizioni di effettivo controllo». 
Giovanni Tamburi, l’investitore più vicino che abbia l’Italia a Warren Buffett, è già passato di qui. Anni fa Consob sancì il controllo di fatto su Interpump, che da allora è consolidata nella Tamburi Investment Partners (Tip). Oggi il consulente bancario «Be, Think, Solve, Execute», dove Tip ha il 23%, è nella lista delle 45 a rischio potenziale (o ipotetico) di «controllo di fatto». Tamburi è decisamente rilassato in proposito: «È giusto che ci si pongano queste domande dice -. La trasparenza è sempre positiva». 
Non è chiaro però come reagirebbe per esempio il Tesoro a uno scrutinio sul controllo di fatto come quello esercitato su Vivendi per il caso TimTelecom. Oggi lo Stato ha una «influenza notevole» su LeonardoFinmeccanica con il 32,4%, su Enel con il 23,5%, su Eni con un 3,9% unito al 26,3% di Cassa Depositi. Se per caso la Consob giungesse per le grandi partecipate pubbliche alle stesse conclusioni raggiunge su Tim domina l’assemblea, domina il consiglio, dunque controlla di fatto la società allora il Tesoro dovrebbe consolidare il debito di Enel e Eni e anche il debito dello Stato salirebbe. Considerazioni del genere rendono oggi improbabile che molte altre grandi aziende a controllo italiano subiscano il trattamento riservato a Vivendi. Forse è normale e in Francia il protezionismo regolatorio è anche più pronunciato. Ma un capitalismo è credibile, in tutti i Paesi, quando le stesse regole valgono per tutti.