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 2017  ottobre 30 Lunedì calendario

Retata in Tunisia, sale l’allerta jihadisti anche in Italia

L’allarme combattenti che tornano dalle zone di guerra con pessime intenzioni per il Maghreb come per l’Europa, ha le sembianze di cinque presunti attentatori arrestati a Teboulba, nella zona di Monastir, in Tunisia: volevano attaccare un autobus turistico nella regione e le prime verifiche hanno confermato che alcuni di loro hanno un passato in Siria, appartengono a Daesh e hanno mantenuto contatti con quello che resta dell’organizzazione. Un episodio al quale guardano con preoccupazione anche il Viminale e l’intelligence italiana, da tempo preoccupati dal fenomeno del ritorno dal fronte. Tanto più che non si fermano gli spostamenti dalle coste tunisine verso l’Italia delle cosiddette imbarcazioni «fantasma», impossibili da rintracciare coi radar.
COMBATTENTI DI RITORNO
Per la Tunisia è un incubo che prende forma: il paese più stabile dell’aerea dopo le primavere arabe, l’unico protagonista di una transizione democratica, è anche quello ad aver fornito al fronte delle bandiere nere il maggior numero di jihadisti procapite. Si stima che i tunisini partiti per combattere la «guerra santa» siano circa seimila, che si sommano alle stabili presenze nel paese, a giudicare per non dai numerosi attentati, tra i quali quello della spiaggia di Sousse nel 2015 (trentotto vittime) e al museo del Bardo (venti vittime). Dopo la caduta dell’Isis a Raqqa e la complessiva perdita di territorio, la preoccupazione nel paese, come in Europa, è che i miliziani tornino per spostare qui la militanza del terrore, tanto più che stando alle fonti di intelligence e alle corrispondenze dall’area, l’Isis avrebbe ormai deciso di rendersi sempre più simile ad Al qaeda, abbandonando le pretese di conquista territoriale. Non a caso, nel paese le operazioni di sicurezza in questi giorni proseguono a ritmo serrato: prima di questi cinque arresti, la scorsa settimana è stato fermato un contrabbandiere, originario di Ben Guerdane e specializzato nel commercio di carburante importato illegalmente dalla Libia, che avrebbe avuto un ruolo nell’attentato avvenuto nella medesima città, nel 2016.
BARCHE FANTASMA
L’instabilità della Libia, come notato anche dall’ex presidente del consiglio Romano Prodi sul Messaggero, potrebbe avere dirette conseguenze per la Tunisia. Dalle sue coste continuano a partire le cosiddette barche «fantasma» considerate le più appetibili per criminali e terroristi che vogliano raggiungere l’Europa passando dalle coste italiane, proprio perché le imbarcazioni molto piccole difficilmente vengono rintracciate e, all’arrivo, diventa più semplice nascondersi nella folla. In questo caso non è un problema di numeri: gli arrivi per l’Italia si aggirano attorno ai cento a settimana, molto meno di quanto accadesse con la rotta libica. Ma Viminale e intelligence italiana sono particolarmente preoccupati. Con Tunisi funzionano da tempo cooperazione giudiziaria e accordi di rimpatrio anche se, per il governo, non è facile controllare l’intera costa e, in più di un caso, sono stati scoperti trafficanti in combutta con la guardia costiera. Forse proprio per dare un segnale all’Europa (con la quale sono in piedi consistenti progetti di investimenti economici nel paese), ieri il governo tunisino ha fatto sapere di essere riuscito a «smantellare una rete criminale dedita all’organizzazione di traversate clandestine verso l’Italia» arrestando due dei principali trafficanti di esseri umani della regione di Sfax. Ma è presto per dire se basterà a fermare i «fantasmi».

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Procuratore Roberti, lei veste il doppio incarico di capo della procura nazionale antimafia e antiterrorismo. L’instabilità in Libia quanto può aumentare i rischi per il nostro paese?
«La situazione in Libia è perennemente mutevole. Non possiamo dare per acquisito neppure il dato della diminuzione delle partenze che abbiamo registrato in questi mesi, finché non si risolve la questione di fondo del controllo e della stabilizzazione del paese».
Romano Prodi su questo giornale ha parlato degli interessi di altri paesi europei a sostenere differenti leader. Pressioni che possono ulteriormente destabilizzare il paese. Qual è la sua opinione?
«Mi pare evidente che le potenze europee ed occidentali dovrebbero muoversi insieme, per stabilizzare il paese e assicurare piene condizioni di rispetto dei diritti umani per i migranti che vi vengono trattenuti. Su questo aspetto hanno un’enorme responsabilità anche le Nazioni unite che poco hanno fatto per premere sulle autorità locali e garantire entrambi gli aspetti. In questo quadro alcuni attori europei agiscono mettendo in primo piano i propri interessi e l’Italia si trova ad essere l’unico paese che punta a stabilizzare l’area con sforzi comuni e a chiedere il rispetto dei diritti umani. L’accordo di cooperazione giudiziaria che abbiamo firmato con le autorità libiche metteva la questione al primo punto, ma ora bisogna premere perché quell’intesa sia rispettata».
L’aumento dell’instabilità in Libia ha un impatto sull’aumento delle partenze dalle coste tunisine?
«Al momento è un’ipotesi, non ci sono dati certi. Sicuramente, c’è una preoccupazione relativa alle cosiddette imbarcazioni fantasma che arrivano sul nostro territorio evitando i controlli a cui vengono sottoposti i migranti. Un canale che potrebbe essere usato da criminali di ogni genere».
Alcuni analisti parlano di qaedizzazione dell’Isis dopo le sconfitte sul campo, dicono che potrebbe puntare con maggior forza sulla cosiddetta guerra asimmetrica, ovvero sugli attentati. Lei cosa ne pensa?
«Certamente è una prospettiva fondata. Ecco perché il pericolo per il nostro paese è molto alto, come del resto per altri paesi europei. Abbiamo segnali molto chiari su questo anche in recenti rapporti di polizia e da fonti internazionali. E non è solo legato ai returnee. Il rischio è alto perché è legato alla situazione internazionale e al proselitismo, fatto soprattutto su internet. Guardi, le voglio dire tutto quello che penso: il terrorismo è, innanzitutto, una grande questione criminale. Ci sono gruppi criminali che cercano spazi di potere politico ed economico-finanziario attraverso il terrorismo. Questi gruppi criminali fanno proselitismo e riescono ad aggregare soprattutto persone in difficoltà economiche o con problemi vari, anche di tossicodipendenza o disturbi mentali, e li mandano a immolarsi. Ma la verità è che il terrorismo è uno strumento di potere, sennò non si capirebbe il finanziamento del terrorismo da parte di alcuni stati».
È un fenomeno più che complesso. Come si combatte?
«La questione interroga soprattutto la politica. Quello che posso fare dal mio punto di vista, limitato rispetto alla situazione, è soprattutto rafforzare il canali di cooperazione giudiziaria e coordinamento».
L’Isis ha usato anche il traffico di migranti come canale di finanziamento?
«L’Isis si comporta come uno stato mafia: si finanzia con traffico di stupefacenti, armi, opere d’arte e migranti. Uno stato mafia che è ancora lontano dall’essere sconfitto».
Non tranquillizza il fatto che la Tunisia abbia fornito alla jihad il maggior numero di militanti pro capite...
«I soggetti militanti dall’Isis dispersi dopo la disfatta sul territorio prima in Libia e poi anche in Siria potrebbero e possono approfittare dei flussi migratori per arrivare più facilmente in Europa. Con i flussi migratori arriva di tutto e quindi anche i terroristi, specie dopo la caduta di Raqqa nei giorni scorsi. È un’ipotesi concreta anche se non verificata. Del resto, l’attentatore di Berlino, Amri, così come quello di Marsiglia, Hannachi, erano arrivati in Italia attraverso i barconi. Ricordiamoci, però, che per combattere il terrorismo bisogna intervenire sui principali finanziatori, tra i quali paesi di primissimo piano in Medio oriente e per farlo ci vuole uno sforzo unitario della comunità internazionale».
Lei è stato il primo procuratore nazionale antiterrorismo, ora il suo mandato è prossimo alla scadenza. Bilancio del passato e previsioni per il futuro?
«Sono particolarmente soddisfatto dell’accelerazione data alla cooperazione giudiziaria, soprattutto internazionale. Ma mi auguro che in futuro i paesi europei che ancora cooperano poco, non mi faccia dire quali, capiscano l’importanza di unire gli sforzi».