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 2017  ottobre 29 Domenica calendario

L’amore folle per l’untore dell’Aids

Si fa un gran parlare di corpo delle donne, di educazione a considerare quel corpo non oggetto di predazione, piacere compulsivo, come accade ancora in sacche barbariche della civiltà, eppure di fronte a sentenze come quella che condanna Valentino Talluto, “l’untore di Roma”, a 24 anni di carcere per «lesioni aggravate dalla continuazione», e non all’ergastolo per epidemia dolosa, come aveva chiesto il pm, ci sembra che la via verso un riconoscimento pieno del corpo femminile sia un miraggio. 
Talluto, oggi 33enne, sieropositivo figlio di madre sieropositiva, dal 2006 al 2015, quando è stato arrestato (e la catena di contagi si è spezzata solo con l’arresto) ha contagiato 57 donne. Con un calcolo forse grossolano ma rappresentativo del rapporto tra delitto e castigo, egli ha ricevuto neanche un anno di galera per donna contagiata. Di queste 57 donne, tutte conosciute in chat, 32 casi sono contagi diretti. Dunque gli anni di galera sono inferiori anche al numero di queste “unzioni” direttamente riconducibili a lui. Talluto, consapevole di essere sieropositivo, conduceva una vita sessuale abnorme e che sarebbe stata gravemente irresponsabile anche per un individuo sano, o che ignorasse di avere l’Aids. Lui no, lui sapeva. E continuava a cercare donne, e nella sua ricerca ha finito per contagiare anche un bambino, che ha contratto il virus dalla madre, vittima di Talluto. 
Abbiamo detto vittima. Perché a sentire le sciagurate parole della fidanzata dell’uomo, in questa vicenda non ci sarebbero «né vinti né vincitori», e dunque nemmeno vittime. Secondo la donna, quelle donne si divertivano, correvano liberamente il rischio dell’infezione. Lo schema, stavolta pronunciato da una donna, è lo stesso che viene avanzato (perlopiù da maschi) quando si vuole giustificare uno stupro: la vittima non è vittima perché era un’anima persa. Queste anime perse non meritano alcuna pietà, sono solo carne da macello, per loro non vale nessuna delle spiegazioni psicologiche, delle attenuanti intrise di quella compassione disgustosa che vale per il criminale. Un uomo sa di portare un veleno mortale nel suo sangue, lo sparge deliberatamente nelle vene di un mucchio di donne, e il peso della colpa viene spostato su queste donne dannate, non su chi ha dato loro la caccia, chi le ha scelte come bersaglio, chi le ha ingannate, chi le ha colpite senza adottare la profilassi per evitare il contagio. Ecco a quale grado di dedgradazione psicologica e morale può portare l’amore la donna ha infatti ribadito il suo amore all’untore quando diventa progetto perverso, delirio. «Si è comportato male, ma non è un mostro», dice la donna. Ebbene noi crediamo che sia molto peggio di un mostro, che è solo una creatura della fantasia. La donna arriva a comprendere il fidanzato affermando che non aveva cognizione di essere una minaccia per gli altri, in fondo lui stava bene. Lo assolve in quanto idiota. Si appiglia all’idea che lui, la cui madre era morta di Aids, non si rendesse conto che la sua promiscuità sessuale fosse come una roulette russa, ma con le vite degli altri. Dice che la condanna è «un macigno». La condanna, non la colpa del suo uomo, che ella deve giudicare lieve come un piuma. Quanto alle 57 donne che l’uomo, dal quale spera di avere dei figli, ha infettato, non è dato sapere come ella pesi le loro anime, e quanto. Le uniche preoccupazioni sono per gli anni di galera per il fidanzato, non c’è spazio per pensare ai dolori di quelle vite di anime dannate. Alcuni potrebbero scandalizzarsi che alla fidanzata sia data una tribuna per esprimere la sua opinione. Noi invece crediamo che sia un bene, per capire quanto la battaglia sul corpo della donna non sia una questione di maschi contro femmine, ma di razionalità contro follia, di autonomia di pensiero contro una visione oscura, crudele, vile non solo della sessualità, ma in generale dei sentimenti, dell’amore, dei rapporti.