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 2017  ottobre 29 Domenica calendario

La musica è bestiale e le bestie sono musicali

Nessuno mai fu più grande di Gigi Riva, Rombo di Tuono. Questa sentenza, proprio scritta così, la lessi sul Guerin Sportivo, e fu opera di Gioanbrerafucarlo, Gianni Brera insomma. La coniò dopo che Re Brenno lo chiamava anche così piazzò una rovesciata che spaccava la rete e il mondo contro il Vicenza, 1969. Brera e Riva mi sono tornati in mente leggendo Il Canto degli animali. I nostri fratelli e i loro sentimenti in musica e in poesia (Marsilio, pp. 447, € 22) di Paolo Isotta.
Isotta per me è Gigirriva. Questo libro, assolutamente unico, è esattamente un gesto atletico e artistico sublime, sfonda il muro e ci fa entrare in un giardino dove gli animali ci parlano, e non è una fantasia poetica, ma usignoli, leoni, cani, upupe, linci, volpi e gatti usano come un flauto o come una tastiera di pianoforte i versi di Ovidio e D’Annunzio (i preferiti di Isotta), Pitagora e Lucrezio, e poi Ariosto e Tasso, Tolstoj e Totò (sì, il principe de Curtis), ma insieme scrivono sul pentagramma con la mano di Mozart, Haidyn e Beethoven. Isotta costruisce una “antologia personale” vastissima e meravigliosa, dove chi assembla, lega, canta, piange e ride non è artista minore rispetto a quelli di cui ci nutre in queste pagine. 
Isotta per me è Brera, il suo omologo napoletano. Quello che Gioann è stato nel calcio e nello sport, salvo tracimare come il Po oltre le golene, Paolo lo è e lo sarà per cent’anni ancora per la musica sinfonica e l’opera lirica, da lì spaziando ovunque il genio lo porti. 
Brera fu un bassaiolo lombardo, poi trasferitosi su lago di Pusiano, a Bosisio Parini, nella Brianza lecchese. La sua scrittura, qualunque cosa vergasse, era insieme terragna, odorosa di nebbia e di brughiera, dunque locale, localissima, ma insieme universale, celtica, greca e latina. Citazioni non ritagliate casualmente, ma macinate in scoperte mai finite di biblioteche e osterie. Una raffinatezza di fili d’oro che poi esplodeva nell’elogio di un bicchiere di Barbera e di un salame cremonese di grana grossa. Il mistero agonistico del calcio era l’ambito della sua musica. Faceva cantare la palla. 
Isotta estrae musica, le ridà suono e armonia con le parole, che non sono un sostituto di inchiostro a chiavi di violino et similia, ma sinfonia in sé. Finissimo e volgarissimo, Isotta: ancora più di Brera. Ma la volgarità, senza perdere la sua pesantezza e flatulenza, grazie a lui vola, si sposa con il sublime di un arazzo barocco. Esempi? Non sopporta che si qualifichino le tendenze sessuali, di cui lui è assai ricco, come omosessualità. Dice e scrive: Io so’ ricchione. Sentirlo dal vivo è commedia dell’arte, si ode l’eco dei fescennini. 
Mi rendo conto che sto cercando di imitare Isotta. Mi arrendo. 
Impossibile. Incespico, non so usare i suoi participi assoluti in italiano, senza che appaiano rimasticature. Leggetelo e capirete che voglio dire. Intanto insisto nel provare a raccontarlo. 
Alcuni decenni fa, da inviato del Corriere della Sera, scendo all’aeroporto di Napoli. Avevo un sodalizio amicale, forse non sessuale, ma non è detto, con Paolo. Viene ad accogliermi con squisita ospitalità. Indi si offre di accompagnarmi non ricordo dove. E che fa? Mi carica sulla sua Vespa, e si inoltra nel traffico guizzando come un pesce, e io dietro a vibrare più dello scooter. 
Ed ecco che un motociclista vestito da tamarro ne interrompe con una manovra i volteggi. Ne esce un bisticcio, in una lingua sconosciuta, penso fosse il napoletano archetipo, il sanscrito partenopeo usato nei postriboli di Pompei. Riesco solo a distinguere la frase definitiva che lascia silente il guappo, ridotto a immoto cadavere. Scandisce Paolino: «Tu a me me devi fa’ sulamente lu bucchinu». Aulico e cafone: Totò in altre sembianze. 
Paolo Isotta è considerato da chi ne capisce ad esempio Riccardo Muti il più grande scrittore in circolazione nel campo della musica. La conosce tutta, fino all’ultimo si-bemolle della pagina scarabocchiata da Verdi. Soprattutto la ama totalmente; e odia chi la sciupa e lo ripaga con crudeltà. Da qui adorazione dei melomani e risentimenti dei nanetti. Gusta come un astrofisico la luna di una galassia lontana, e disprezza gli idioti che la trascurano. La sua unicità è di saper far convivere in sé estetica e scienza. Il Corriere della sera ha goduto per molti anni di questa sua competenza mirabile, travasata in articoli di una qualità letteraria che tra i redattori di quel medesimo giornale è stata di Dino Buzzati e di Eugenio Montale, e non sto esagerando. 
Non si può dire che al Corriere fosse amato. Ha patito persecuzioni (oibò, veniva dal Giornale di Montanelli, un marchio d’infamia prima che Indro fosse adottato dalla sinistra), ha dovuto sopportare la convivenza con autentiche capre, anche se come si è capito dal titolo del libro le capre sono nostre sorelle, mentre i giornalisti che si attirano il paragone zoccoluto, no, non sono fratelli, ma presuntuosi rompiballe. 
Infine salutato il Corriere, con un’adorabile pernacchia mozartiana e plebea, Isotta si è pensionato e scrive (purtroppo non per Libero) articoli da esploratore artico o equatoriale, stupendo sempre chi si accosti alla sua produzione. Ma soprattutto propone libri. Un paio d’anni fa una autobiografia. Ora la prima epica animalista (lui la chiama vezzosamente “operetta”), cui dà dignità di poesia e di filosofia. Le citazioni in lingua originale, tradotte tutte, consentono di percepire la musica di Flaubert e di Wagner. Il problema è che l’italiano di Isotta è intraducibile. Non si può sintetizzare. Ci si immerge. 
Si trovano in queste pagine anche i fondamenti teorici del veganesimo, o almeno del verdurismo. Paolo confessa di non riuscire sempre a trattenersi dall’addentare pesci o bistecche, ma nessuno è perfetto. Gli oppongo una considerazione consolatoria per i suoi peccati di carne e una proposta: mangiare gli animali-fratelli sarà pure cannibalismo, ma il cannibalismo è o non è la massima forma primordiale di comunione e di fraternità, tanto che chi-non-mangia-la-miacarne eccetera? Godrei come un fratello riccio se potessi leggere presto un tomo di Isotta in materia. Intanto riferisco che Isotta ha dedicato questo libro «a Ortensio Zecchino (un suo grande amico irpino, nonché storico del diritto e politico democristiano, ndr) e a tutti quelli che lottano contro la caccia, in cielo, sulla terra e nel mare». Qui Brera lo sfiderebbe a un duello rusticano impugnando Omero e Rabelais, ma ci tocca rimandarlo. 
Per parte mia offro ai lettori e a Paolo un brano di Anton Pavlovic Cechov che per me spezza la doppietta a qualsiasi cacciatore costringendolo a pentirsi. È in una lettera ad un amico, citata nel Lapidarium di Ryszard Kapuscinski: «In questi giorni è ospite da noi il pittore Levitan. Ieri sera siamo andati a caccia insieme. Ha sparato a una beccaccia, che è caduta in una pozza, con l’ala spezzata. L’ho sollevata: becco lungo, grandi occhi neri e un bellissimo piumaggio. Mi guarda stupita. Che farne? Levitan fa una smorfia, chiude gli occhi e supplica con voce tremante: “Ti prego, caro, spaccale la testa con il calcio”. Rispondo: “Non posso”. Levitan continua ad agitare nervosamente le spalle, scuote la testa, scongiura. Intanto, la beccaccia ci guarda con stupore. Sono costretto ad accontentare Levitan e a uccidere l’uccello. Adesso il mondo ha una deliziosa creatura in meno, e due imbecilli che rientrano a casa per mettersi a cena». Che gli vada di traverso. Amen.