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 2017  ottobre 29 Domenica calendario

La vera rivoluzione russa ha centododici anni

Il 9 gennaio 1905 (ma per il nostro calendario gregoriano era il 22) un pacifico corteo operaio, guidato dal pope (prete ortodosso) Gapon e diretto verso il Palazzo d’Inverno per consegnare una petizione a Nicola II, fu aggredito selvaggiamente dai reparti armati dello zar. Le centinaia di morti e feriti della «domenica di sangue» di Pietroburgo segnarono l’inizio di una epopea rivoluzionaria, che si sarebbe conclusa nel 1921. Il quindicennio rivoluzionario fu scandito da tre grandi crisi (1905-1907, 1917-1918 e 1920-1921), intervallate da lunghi o brevi periodi di relativa quiete. È in questa più vasta cornice storica che vanno inserite le vicende del 1917.
La prima rivoluzione russa del 1905 non fu il «prologo» o la «prova generale» del 1917, come molti ripetono. Numerosi furono i protagonisti sociali e politici di quel grandioso sommovimento, che vide l’attiva partecipazione di operai, contadini, ceti professionali e nazionalità oppresse. Tutti gli strati della società russa, per la prima volta, fecero irruzione sulla scena politica. Una società fino allora incatenata si liberò delle catene, rivendicando con voce tonante i propri diritti. Gli innumerevoli opuscoli e giornali, le migliaia di volantini, le «sentenze» delle assemblee contadine, le rivendicazioni degli operai in sciopero, i progetti di riforme, i verbali dei congressi dei partiti, gli atti della prima e della seconda Duma (il Parlamento nato allora) ci narrano bisogni e mentalità, aspirazioni e sogni, desideri e programmi della società russa e dei suoi vari interpreti politici. I partiti socialisti e liberali poterono gettare il seme della coscienza politica tra i ceti umili, specie nelle campagne. Nella seconda metà dell’Ottocento si era avuta in Russia, oltre alla formazione del proletariato di fabbrica, la nascita del cosiddetto «terzo elemento», che aveva avvicinato l’intellighenzia all’arcaico mondo popolare. I maestri elementari, i medici condotti, gli agrimensori e gli altri impiegati degli zemstva (le amministrazioni provinciali e distrettuali), lavorando nei villaggi, si erano conquistati il rispetto e la fiducia dei contadini.
La rivoluzione del 1905 ebbe una vasta eco in Asia, dove contribuì al risveglio e al rinnovamento di imperi secolari (Persia, Turchia, Cina). Nell’Europa occidentale sia l’opinione pubblica liberale che i partiti socialisti seguirono con entusiasmo e trepidazione i clamorosi eventi nell’altra metà del continente. Max Weber imparò il russo per seguire le vicende della rivoluzione. Nell’aprile-maggio 1906, dopo il successo dei cadetti (liberali) nelle elezioni per la Duma, nelle corrispondenze da Pietroburgo per il «Corriere della Sera», Antonio Albertini (fratello del direttore Luigi) salutò la vittoria della libertà di «140 milioni di uomini». Molti allora pensarono e sperarono, non senza fondamento, che la Russia si apprestasse a far parte della comunità delle nazioni libere.
Dopo oltre due anni di scosse, il terremoto rivoluzionario si placò nel giugno 1907 senz’aver abbattuto il regime zarista, che comunque dovette fare alcune concessioni. Nel decennio successivo dell’«autocrazia parlamentare» (la calzante formula è dello storico tedesco Günther Stökl) il vulcano della rivoluzione parve inattivo. Ma riesplose nel febbraio-marzo 1917 nel nuovo e terribile contesto determinato dalla guerra. La svolta estremistica di Lenin e del bolscevismo dopo il 1914 fu uno degli effetti della «brutalizzazione della vita» (come George Mosse chiamò la mutazione antropologica prodotta dalla Prima guerra mondiale). Subito dopo l’insurrezione d’Ottobre, il pensatore socialista Aleksandr Bogdanov colse i tratti peculiari della rivoluzione bolscevica, compiuta da un partito che aveva assimilato la «logica della caserma» (basata sull’uso della forza), diversa dalla «logica della fabbrica» (attenta all’«esperienza organizzativa» e al «lavoro»). Anche il menscevico (socialdemocratico) Julij Martov intuì assai presto il carattere plebeo e soldatesco del bolscevismo, fondato «sulla primitivizzazione totale della vita e sul culto non del pugno calloso, ma del pugno nudo e crudo».
La rivoluzione del febbraio-marzo 1917 parve annunciare l’avvento di un’era di libertà nella storia russa. L’azione politica dei ceti liberali, mirante al rinnovamento costituzionale del Paese, e il movimento sociale delle masse popolari, volto al soddisfacimento dei bisogni delle classi umili, sembrarono agire all’unisono. Tuttavia, a differenza di quanto accaduto nel 1905, la convergenza d’interessi tra borghesia illuminata e classi non abbienti fu di brevissima durata. La guerra era il maggiore ostacolo che si frapponeva a una stabile collaborazione tra i liberali, schierati su posizioni patriottiche e bellicistiche, e i partiti socialisti (i quali, pur lacerati da gravissimi dissidi, si dicevano contrari a obiettivi di conquista). Ma non era solo la guerra a creare tensioni tra socialisti e liberali. Nella drammatica situazione del 1917, con l’aggravarsi della crisi economica, nessun partito borghese diede prova dell’apertura ai problemi sociali mostrata nel 1905 dall’intellighenzia liberale.
Gli operai svolsero un ruolo attivo nel 1917; e anche i soldati e i marinai influirono sul corso della crisi rivoluzionaria. Ma i principali attori del dramma furono i contadini, i quali, tra la primavera e l’estate 1917, crearono le proprie strutture organizzative (comitati agrari e soviet) sotto la guida del partito dei socialisti rivoluzionari (Psr), erede del socialismo populistico. Per la prima volta nella storia della Russia, il movimento contadino si manifestò non in modo cupo e selvaggio, bensì in forme civili e organizzate. Ma la grande occasione storica d’una pacifica rivoluzione agraria andò perduta. Il Psr non capì, malgrado i moniti della sinistra interna e di alcuni comitati locali, che i contadini non avrebbero atteso a lungo l’Assemblea Costituente. Ebbe così inizio, a settembre, una furiosa guerra di classe, che rappresentò l’apogeo della rivoluzione sociale russa: per alcuni mesi gli abitanti dei villaggi, aiutati dai soldati tornati dal fronte, saccheggiarono le grandi tenute, impadronendosi delle terre e dei beni dei signori.
La rivoluzione plebea fu il vasto sfondo sociale che rese possibile la vittoria di Lenin. Con le loro parole d’ordine incendiarie e primitive i bolscevichi si fecero interpreti della rabbia di operai, soldati e contadini. Nell’autunno 1917 la maestria di Lenin non consisté nell’organizzare il colpo di mano a Pietrogrado: anzi, la sua isterica impazienza avrebbe condotto il partito alla sconfitta senza il decisivo contributo di Lev Trotskij, il quale conferì una parvenza di legalità all’azione armata facendola coincidere con la convocazione del Congresso panrusso dei soviet. Il capolavoro politico di Lenin fu la promulgazione del «decreto sulla terra», che accoglieva il programma egualitario del populismo russo.
Il Partito dei socialisti rivoluzionari di sinistra (Plsr), collaborando con i bolscevichi, contribuì alla salvezza e al consolidamento del neonato governo sovietico. Consentendo, nei primi mesi del 1918, l’attuazione della legge sulla «socializzazione della terra» voluta dal Plsr, per un breve lasso di tempo Lenin si fece interprete delle aspirazioni fondamentali dei contadini. Di fronte all’aggravarsi della crisi annonaria, i bolscevichi tornarono alla loro astrusa dottrina sociale, che immaginava il mondo rurale scisso in classi antagoniste, e dichiararono guerra all’inesistente «borghesia rurale». Ma il mondo rurale si oppose concorde, con accanimento, ai commissari bolscevichi venuti a requisire i prodotti agricoli. Ebbe inizio una sanguinosa guerra tra contadini e Stato comunista. Rimaste insoddisfatte le attese popolari, la rivoluzione continuò il suo corso: dopo le proteste operaie e le rivolte contadine esplose in primavera, tra l’estate e l’autunno si formarono governi liberalsocialisti nella regione della Volga e in Siberia. Per paradossale che ciò possa sembrare, la guerra civile tra «rossi» e «bianchi» (controrivoluzionari di destra) favorì i bolscevichi, perché la paura d’una restaurazione monarchica indusse i contadini a sospendere la guerriglia anticomunista e i partiti socialisti a mitigare l’opposizione contro Lenin.
Nella seconda metà del 1920, dopo la sconfitta dei bianchi, s’aprì un nuovo ciclo di lotte sociali e politiche. La rivoluzione russa ebbe termine nella primavera 1921, quando l’Armata rossa di Trotskij riuscì a soffocare nel sangue il poderoso movimento di protesta, esploso in tutta la Russia contro il feroce terrore bolscevico e contro la catastrofe economica provocata dalla politica statalizzatrice del «comunismo di guerra». Gli insorti di Kronstadt e i contadini della provincia di Tambov, che lottavano per la libertà politica e per più umane condizioni di vita, ripetevano le richieste udite nel 1905 e nel 1917. Questa volta l’onda rivoluzionaria andò a infrangersi contro una tirannide, quella comunista, più efferata dello zarismo. Il partito di Lenin, che fino all’inizio del 1918 aveva fatto parte del movimento rivoluzionario, era diventato una crudele falange isolata dalle masse. Trotskij, l’artefice dell’insurrezione d’Ottobre, s’era mutato nel becchino della rivoluzione russa.