La Lettura, 29 ottobre 2017
Hitler soldato, un eroe da ufficio
Quando terminò la Grande guerra, nel novembre del 1918, il soldato semplice Adolf Hitler, insieme al suo reggimento (il 16° di fanteria della 6ª divisione bavarese di riserva, meglio noto come «reggimento List», dal nome di uno dei suoi comandanti), tornò a Monaco, la città dove si era arruolato come volontario nell’agosto del 1914. Non aveva un mestiere e la sua famiglia erano gli uomini con cui aveva passato più di quattro anni in Belgio e in Francia. Dal fronte, dove non aveva quasi mai veramente combattuto, portava soltanto la capacità di intrattenere i suoi commilitoni con una oratoria accattivante su questioni politiche e militari. Benché in congedo, quindi, continuò a essere formalmente membro delle forze armate bavaresi sino al marzo del 1920.
In una città dove sarebbe nata, di lì a poco, una delle due repubbliche sovietiche sorte in Europa dopo l’Ottobre rosso di Pietrogrado (la seconda fu a Budapest), si guardò attorno alla ricerca di una tribuna da cui esercitare il suo talento. Si avvicinò ai socialdemocratici, partecipò alle elezioni distrettuali, divenne vice-rappresentante di battaglione quando i comunisti avevano già conquistato il potere, e frequentò ambienti politici nazionalisti sino a quando si imbatté in un piccolo raggruppamento che si chiamava Partito tedesco dei lavoratori. Fu amore a prima a vista. La nuova casa politica gli piacque e divenne da quel momento, con l’aggiunta di due aggettivi (nazional-socialista), lo strumento di cui si sarebbe servito per farsi spazio nella vita politica bavarese e nazionale.
Conosciamo il seguito della storia, dagli infiammati discorsi in una grande birreria della città sino al putsch fallito dell’8 novembre 1923 e alla detenzione nel carcere della fortezza di Landsberg. Sappiamo anche che in quei nove mesi si dedicò interamente alla scrittura di un libro autobiografico che è contemporaneamente una sorta di lungo e verboso manifesto politico, Mein Kampf. Descrisse la guerra come un grande evento formativo, spiegò che i legami di fedeltà e amicizia stretti nelle trincee avevano creato un nuovo popolo tedesco e una nuova Germania, denunciò il «colpo di pugnale alla schiena» con cui gli ebrei avevano boicottato la vittoria. E mise se stesso al centro di quella drammatica esperienza nazionale, un simbolo del passato recente e una grande promessa per il futuro del Paese.
Più tardi, quando era ormai l’ambizioso leader di un partito alle soglie del potere, alcuni giornalisti cominciarono a fare ricerche e appresero dai suoi commilitoni, tra l’altro, che il coraggioso soldato Hitler aveva fatto il portaordini e aveva passato una buona parte della guerra negli uffici dei comandi, che la ferita al ventre gli era stata procurata dalle schegge di una bomba caduta sul ricovero dei portaordini, che la temporanea cecità, attribuita a gas nemico nell’ultima fase della guerra, era stata in realtà un fenomeno psicosomatico. Era stato decorato con due croci di ferro e ne andava particolarmente fiero, ma tutti i soldati sapevano che le medaglie venivano date tanto più facilmente quanto più il decorando aveva l’occasione di frequentare comandi e ufficiali superiori.
A queste «calunnie» Hitler e le SS reagirono negli anni seguenti con una puntigliosa caccia a tutti coloro che avevano osato intaccare l’immagine del Führer. Molti divennero esuli in patria, altri furono costretti a emigrare, qualcuno ci rimise la vita. I biografi di Hitler e gli studiosi del nazismo hanno preferito concentrare la loro attenzione su altre vicende molto più drammatiche e politicamente significative. Thomas Weber, uno studioso tedesco che insegna Storia e Relazioni internazionali in una università scozzese, crede invece che questa vicenda aggiunga una nota importante alla sua biografia e ne ha fatto il tema centrale del libro La Grande guerra di Hitler, in uscita presso la Libreria Editrice Goriziana.
Il suo lavoro, tuttavia, non è soltanto una denuncia del modo in cui Hitler aveva costruito il proprio personaggio. Per scavare nel passato, Weber ha scritto la storia del reggimento List, le sue peripezie dal fronte belga a quello francese, dalla sorprendente fraternizzazione con le truppe britanniche nel Natale del 1914 alle grandi carneficine nelle battaglie a cui prese parte, dagli entusiasmi della fase in cui la vittoria sembrava sicura al crescente pessimismo di quella in cui la prospettiva della sconfitta diventava sempre più probabile. Con l’aiuto dei diari lasciati da coloro che appartenevano al 16° di fanteria (fra cui quello di un padre cappuccino) e con quello della corrispondenza dal fronte, raccolta e pubblicata in alcune antologie dopo la fine del conflitto, Weber ha scritto un saggio di sociologia militare.
Ne emerge un quadro alquanto diverso da quello che abbiamo l’abitudine di immaginare quando parliamo delle forze armate della Germania o di altri Paesi combattenti. Apprendiamo così che la guerra non ebbe soltanto l’effetto di suscitare, soprattutto nella fase iniziale, un forte patriottismo, ma anche un forte risveglio religioso insieme a frequenti manifestazioni di ribellione, diserzione e autolesionismo; che il reggimento di Hitler fu uno di quelli in cui le perdite furono particolarmente elevate e che nelle sue file durante il conflitto non vi fu alcuna manifestazione di antisemitismo. Sembra anzi che nemmeno il futuro Führer, in quegli anni, fosse antisemita. Cominciò a demonizzare gli ebrei quando aveva bisogno di un nemico su cui scaricare le responsabilità di una guerra perduta. Di tutti gli antisemitismi possibili questo mi sembra essere uno dei più spregevoli. Attribuiva la disfatta a uomini che amavano la Germania e le avevano dato la vita.