Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  ottobre 29 Domenica calendario

Biografia dei Krupp

Hohenstaufen in cella con re Enzo
L’immaginario di un Medioevo immobile si scontra spesso con la realtà che esso fu tutto tranne che immutabile. Questo anche se si considerano le sorti delle famiglie reali, che in genere immaginiamo eterne, espressione mitica della lunga durata. Le loro fortune furono invece sovente piuttosto rapide nell’esaurirsi, entro quattro, al massimo cinque generazioni. È il caso degli Hohenstaufen, la cui parabola, dal primo imperatore, Federico I Barbarossa sino al suo epigono, Corradino, dura poco più di cento anni, dal 1155 al 1268. Con gli ultimi vissuti in un declino irreversibile.
La loro fortuna comincia intorno a un monte: lo Staufen, dalla forma a calice, da cui il nome familiare ( hohen significa alto), sito nell’odierno distretto di Göppingen, Land del Baden-Württemberg. Si fanno largo tra la nobiltà locale, fin quando, nel 1079, il capostipite Federico riceve dall’imperatore Enrico IV il titolo di duca di Svevia. Con una ascesa che, dopo una serie di conflitti, guerre, scalate al potere, terminerà con l’elezione di Federico Barbarossa a re di Germania, il 5 marzo 1152.
Imperatore, Federico lo diventerà dopo, il 18 giugno 1155. Poi inaugura una politica di massima simbiosi tra Hohenstaufen e impero, con l’instaurazione determinata di un ordine che garantisse al clan una presenza duratura e pervasiva su tutto il loro dominio, in particolare laddove conduceva la tradizione: in Italia. Politica seguita da suo figlio Enrico VI e ribadita dal nipote Federico II, che ampliano i confini del potere familiare, aggiungendo la perla del Regno di Sicilia al diadema imperiale.
Ma dopo Federico II, che muore nel dicembre 1250, tutto muta. Il potere degli Hohenstaufen è seriamente minacciato. Una raffica di difficoltà – dalle crescenti autonomie cittadine alla riottosità dei grandi signori feudali; dall’emergere della Francia come potenza continentale allo scontro con la Chiesa – aumenta le tensioni. Ma la tradizione familiare di dominio imperiale va perseguita e non si può abbandonare. I figli di Federico II, legittimi e illegittimi, perseverano perciò sulla scia tracciata dal padre. Ma il carisma, il prestigio e soprattutto la sorte e il tempo non stanno dalla loro. Ci prova l’erede designato, Corrado IV, che avrebbe il piglio politico e la spregiudicatezza per seguire le orme del padre, ma muore troppo presto, nel 1254. Ci prova il suo fratellastro Manfredi a bloccare le aspirazioni franco-angioine, ma inutilmente. E a Benevento, nel 1266, si frantumano tanto il sogno svevo meridionale quanto il controllo ghibellino sul resto dell’Italia. L’avventura di Corradino, figlio di Corrado IV, resta, sebbene intrisa di un forte sapore romantico, effimera. Egli si scontra con chi possiede troppa esperienza più di lui e tanto pragmatismo: quel Carlo I d’Angiò consapevole che tutto il suo futuro sarebbe stato basato sull’equazione «morte di Corradino, vita di Carlo/morte di Carlo, vita di Corradino». La decapitazione del giovane a Napoli, per quanto violentissima e vituperata, è la chiara espressione della politica angioina di cancellazione, perseguita con ogni mezzo, della presenza sveva non solo nel Mezzogiorno ma in tutta Italia.
In questo rapido declino, resta una storia da raccontare. È quella dell’altro figlio illegittimo di Federico II, Enzo, re di Sardegna. Fatto prigioniero dai bolognesi quando ancora il padre è in vita, viene incarcerato, anche in condizioni di estrema durezza, per 23 anni, fino alla morte, avvenuta nel 1272. A lui toccò la sorte peggiore: vedere sgretolarsi, giorno dopo giorno, tutto quello che, a duro prezzo, i suoi antenati Hohenstaufen avevano creato.
Amedeo Feniello
L’ambizione fatale affonda i Krupp
Molte fortune e tanti imperi iniziano con le disgrazie, continuano nella vergogna, finiscono in opere di bene. La storia dei Krupp, industriali d’acciaio della Germania, è di questo genere: nascita, vita e declino s’intrecciano alle vicende del Paese. Anzi, a quelle dello Stato tedesco, prima ammaliato dall’espansione, poi domato e benevolo. Arndt Krupp, o Krupe, un olandese, nel 1587 si installò a Essen, non lontano dal Reno. Fu l’inizio della dinastia che lì rimarrà per sempre e contribuirà a fare della città il centro produttivo principale della Ruhr. Arndt era un commerciante con l’occhio lungo: comprò a basso prezzo le case degli abitanti che fuggivano la peste del periodo.
La famiglia diventò presto la più ricca di Essen, acquistò posti di preminenza nella municipalità e, con gli anni, espanse le attività a miniere e fonderie. Entrò nel business delle armi: occasione, la guerra dei Trent’anni iniziata nel 1618. Non proprio un impero, fino a quel momento, però. Il salto verso la grande dimensione e l’ambizione iniziò nel 1811, quando Friedrich Krupp aprì una prima produzione per l’acciaio: le guerre napoleoniche impedivano di importarlo dall’Inghilterra e questa era un’occasione d’affari. Qui avviene qualcosa di curioso e istruttivo: per 25 anni, l’azienda perde denaro. Cos’è che muove il fondatore della dinastia, ma poi anche le generazioni successive, se non il profitto? Un’idea, probabilmente, un’ossessione, un sogno di potenza: prima o poi l’acciaio sarebbe diventato il cuore dello sviluppo tedesco. La certezza fu concretizzata dal figlio di Friedrich, Alfred, che vide la crescita del business intrecciata alla creazione dell’impero germanico. Viviamo «nell’età dell’acciaio», disse al neoimperatore Guglielmo I: Bismarck era d’accordo. Iniziava così la relazione speciale, intensa, senza remore dei Krupp con lo Stato tedesco. Che sarà portata avanti in modo ancora più totale dal figlio di Alfred, Friedrich Alfred, con il kaiser Guglielmo II.
L’industria cresce, all’inizio del Novecento le aziende Krupp sono il primo gruppo della Germania. Da Villa Hügel, sempre a Essen, la famiglia guida gli affari, stabilisce relazioni con la corona, con i banchieri, con i militari. Nel 1902, alla morte del padre Friedrich Alfred, Bertha diventa proprietaria di tutte le azioni della società: una donna non può però guidare un impero dell’acciaio e le redini passano al marito scelto personalmente dal Kaiser, Gustav von Bohlen und Halbach, al cui cognome sarà aggiunto Krupp. In compenso, alla moglie il popolo dedicherà il cannone più famoso e potente della Grande guerra, il Dicke Bertha, «Grassa Bertha». Inizia la produzione bellica su larga scala. Che raggiungerà i livelli più alti durante la Seconda guerra mondiale, con l’apprezzamento di Hitler e la manodopera di schiavi in campi di prigionia. A Norimberga, Alfried, figlio di Gustav, fu condannato come criminale di guerra. Passò cinque anni in carcere, uscì, rientrò in possesso dei diritti di proprietà del gruppo che nel frattempo aveva abbandonato la produzione di armi. Alla fine degli anni Sessanta, tutte le quote azionarie di famiglia furono messe in una fondazione che da un lato controlla il business (oggi ThyssenKrupp) e dall’altra sostiene iniziative sociali.
Sogni di gloria e di dominio finiti, assieme a quelli della Germania. L’ultimo dei Krupp, Arndt, figlio di Alfried, è morto nel 1986, un anno prima di poter celebrare i quattrocento anni dalla fondazione della dinastia. Una piccola morale? Forse, gli industriali dovrebbero pensare al profitto. Solo al profitto.
Danilo Taino

Fine dei Lehman, poi della Lehman
Il 15 settembre 2008, quando la Lehman Brothers dichiarò bancarotta, il più disastroso fallimento della storia americana, la famiglia Lehman non perse neanche un dollaro. La banca fondata a metà dell’Ottocento da tre fratelli ebrei tedeschi, figli di un mercante di bestiame della Baviera, era uscita dall’orbita familiare nel 1969, quando morì Robert Lehman, l’ultimo della dinastia a guidare questa centrale finanziaria. Negli anni successivi l’istituto venne prima fuso con la Kuhn Loeb & Co.. Poi, nel 1984, fu venduto all’American Express che lo fuse con la Shearson. Poi un altro divorzio e la banca che torna attore indipendente. Più tardi, sotto la guida di Dick Fuld, vivrà una tumultuosa crescita: più clienti, più profitti, ma anche rischi sempre più grossi. E gli enormi debiti che la uccideranno.
Nessun danno economico per gli oltre trecento eredi dell’impero Lehman, ma prestigio della famiglia in pezzi. Una storia, quella dei Lehman, che incarna l’evoluzione – o, meglio, l’involuzione – del capitalismo americano nell’arco di due secoli. Vicenda tanto suggestiva e piena di simbolismi da spingere un drammaturgo italiano, Stefano Massini, a dedicarle un libro e un’opera teatrale rappresentata con successo in molti Paesi europei e negli Usa. Una storia imprenditoriale che inizia col commercio – un negozio di tessuti in Alabama – passa all’industria (cotone), e trova l’approdo definitivo nei servizi finanziari: decenni di operazioni prestigiose, che portano sul mercato, tra gli altri, i grandi magazzini Woolworth e Macy’s, i pneumatici Goodrich e le auto Studebaker. Poi gli eccessi della finanza di Wall Street, la scommessa sciagurata dei mutui subprime e il crollo.
Ma dietro quella economica c’è, assai meno notata, la storia di immigrati europei dinamici e pieni di talento. Non solo Henry, Emanuel e Mayer, i tre fratelli che arrivarono uno dopo l’altro in America, ma anche Pete Peterson: il banchiere immigrato dalla Grecia (vero nome Petropoulos) che prese la guida della banca dopo la morte dell’ultimo Lehman e la salvò da una prima crisi. E anche Lewis Glucksman, l’ungherese che affiancò per alcuni anni Peterson, fino a quando non lo attaccò costringendolo a lasciare l’istituto. Questa epopea di migranti – cosa strana in un’epoca in cui si parla solo di immigrati musulmani in Europa e ispanici negli Usa – è anche storia di divisioni nel mondo ebraico e di discriminazioni. Perfino nell’America che accoglieva a braccia aperte le vittime delle persecuzioni razziali del nazismo e del fascismo. Il padre dei tre fratelli aveva già cambiato il nome yiddish di Loeb in Lehmann. Il primo fratello, quando arriva in America, toglie una n e cambia il suo nome da Heyun in Henry. Quando, tre anni dopo, lo raggiungerà Mendel, verrà ribattezzato Emanuel.
I Lehman vendono tessuti a Montgomery, poi sfondano nel cotone. Diventano protagonisti nella contrattazione delle materie prime, entrano nel mercato del caffè, seguono lo spostamento delle contrattazioni trasferendo la sede a New York, entrano in finanza con le obbligazioni ferroviarie.
Pian piano si integrano con le famiglie wasp. Diventano protagonisti in politica con Herbert Lehman, governatore di New York, e col procuratore di Manhattan, Robert Morgenthau (ramo cadetto della famiglia). Ricchi, impegnati in politica, ma senza più peso in finanza e senza identità. L’ultimo raduno di famiglia a New York, una ventina d’anni fa: erano più di 150, ci vollero i saloni del Metropolitan Museum. Oggi i coriandoli di Lehman sono sparsi ovunque: fotografi, filantropi, designer, ex ambasciatori. Dopo il declino, la diaspora.
Massimo Gaggi

L’Italia si perde e trascina i Medici
É con l’inizio del Seicento che comincia, inesorabile, la decadenza della dinastia medicea. Di un simile progressivo crepuscolo della famiglia, Maria – cugina di Caterina e figlia di Francesco I, granduca di Toscana – sembra essere, suo malgrado, la figura più rappresentativa. Lei che aveva sposato Enrico IV, re di Francia, e che però, alla morte di quest’ultimo, avvenuta per mano del fanatico Ravaillac (che lo uccise con due coltellate), si ritrovò reggente prima e poi regina esiliata da Parigi per ben due volte. Lei, osteggiata dal duca di Luynes nel 1617 e dal cardinale di Richelieu nel 1630, lei allontanata dal proprio figlio Luigi e morta sola e in povertà a Colonia, dopo che Rubens, il celebre pittore fiammingo, l’aveva ospitata presso una sua piccola casa d’Anversa. 
C’è, nella parabola di Maria, tutta la caduta dei Medici, quel ripido precipitare che porta una grande dinastia a contare sempre meno, sia per la stagnazione dei commerci e una perduta capacità di guardare oltreconfine, sia per la peste nera del 1630 che scaraventa l’Europa intera nel suo periodo più buio, e non da ultimo per le figure particolarmente incolori che si susseguono a Firenze: su tutte il povero Cosimo II, granduca di Toscana, disperatamente alla ricerca di un’impresa che lo faccia passare alla storia e che invece incappa in una serie di episodi donchisciotteschi che gli precludono qualsiasi successo politico. Si pensi alla tentata crociata fuori tempo massimo per la liberazione di Gerusalemme che a nulla porterà, o alla successiva auspicata sollevazione dei popoli d’Oriente contro l’impero ottomano grazie a una sua bizzarra amicizia con Fakhr ad-din, sedicente principe dei Drusi, che si rivelerà, invece, impostore e ciarlatano. 
Ma è anche il mutare dei tempi a decretare la lenta e ineluttabile caduta della dinastia medicea. Quel secolo di ferro, come venne definito il Seicento, si rivelò per l’Italia a dir poco fatale: le corporazioni d’arti e mestieri, lungi dal rappresentare un fattore di progresso com’era avvenuto trecento anni prima, sono ora piccole consorterie di potere che impediscono l’innovazione e l’applicazione delle nuove tecniche di produzione, condannando l’esportazione italiana di manifatture. Se si combina questa prima sciagura con la dominazione spagnola che instilla nelle classi più abbienti una mentalità ancor più aristocratica e di totale disprezzo verso qualsiasi attività lavorativa e imprenditoriale, e si aggiunge la tragedia della peste che dimezza la popolazione, risulta evidente quanto Firenze, Venezia, Roma e Milano vengano consegnate al provincialismo e all’arretratezza. 
Firenze, centro di quel Rinascimento generato dallo spirito d’iniziativa, dall’intuizione mercantile, dalla precisa strategia commerciale, che rifluivano come una marea spumeggiante nell’amore per l’arte, la bellezza e la cultura, è ora solo l’ombra di se stessa. Quell’infinita schiera d’artisti e letterati che avevano gravitato nell’orbita della corte medicea ora vengono improvvisamente a mancare e se è vero che il Seicento è il secolo di uno dei più grandi pittori di sempre, Caravaggio, è però indicativo che quest’ultimo, come Bernini, Parmigianino o Guido Reni, operi presso ben altre corti. Tra i maggiori studiosi dell’arte italiana vi è proprio quel Pieter Paul Rubens che Maria de’ Medici chiamerà alla propria corte, commissionandogli un ciclo d’opere. Verranno disposte nel Palazzo del Lussemburgo, costruito secondo i canoni fiorentini da un formidabile architetto francese: Salomon de Brosse. L’Italia e i Medici sembrano dunque sopravvivere in un ultimo sospiro d’arte, catturato però da artisti che italiani non sono. 
Matteo Strukul