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 2017  ottobre 29 Domenica calendario

Le civiltà decadute

Faraoni per finta nell’Egitto vassallo
Quando gli egittologi parlano di Late Period («periodo tardo») non bisogna farsi ingannare: si parla dei quattro secoli dal 712 al 332 a.C. In questa fase si assiste alla graduale e definitiva perdita d’indipendenza dell’Egitto: le gloriose tradizioni dei faraoni passati, dai costruttori di piramidi dell’Antico Regno (III millennio a. C.) a Ramses II (XIII secolo a. C.), sono periodicamente riportate in auge a scopo propagandistico, ma non servono a nulla contro superpotenze come Assiria, Persia, Macedonia e Roma.
Dopo una temporanea dominazione libica, fino al 656 a.C. l’Egitto è governato da una dinastia nubiana, che ambisce a riportarlo agli antichi fasti. I Nubiani in effetti garantiscono un periodo di pace, finché l’impero assiro invade l’Egitto nel 671, imponendo un vassallo come faraone, Necho I di Sais (città del Delta occidentale), fondatore della 26ª dinastia. Il Paese diventa allora campo di battaglia tra Nubia e Assiria: con la definitiva conquista assira la preesistente dinastia si ritira in Nubia, a fondare il regno di Meroe.
La dinastia «saitica» continua come vassallo dell’Assiria fino alla conquista persiana nel 525 a.C. In questo periodo l’Egitto non ha più un ruolo nella politica internazionale, ma si limita a sopravvivere come Stato indipendente, sebbene i sovrani saitici imitino i faraoni dell’Antico Regno, per sottolineare la loro continuità con essi. Lanciano anche alcune campagne militari in Asia, in cui si servono di truppe mercenarie straniere. Carii, Fenici, Idumei popolano la cosmopolita capitale Menfi, e i mercenari greci ottengono addirittura il permesso di fondare sul Delta la città di Naucrati, in cui s’incontrano tradizioni egizie ed elleniche.
Dopo il collasso dell’Assiria nel 612 a.C. e un breve interludio babilonese, nel 525 a.C., l’Egitto diviene dominio persiano. I Persiani adottano il titolo di faraoni, ma governano da stranieri, attraverso un satrapo. Per la prima volta dopo 2.500 anni l’Egitto perde l’indipendenza. La sconfitta persiana a Maratona nel 490 a.C. stimola moti di resistenza anche in Egitto, dove prìncipi della zona del Delta si coalizzano contro il dominio persiano. I faraoni Nectanebo I e Nectanebo II tentano di far rinascere il regno attraverso un grandioso programma di costruzione di templi e respingono attacchi persiani.
Nel 343 una nuova offensiva riporta il Paese sotto la Persia, che però esce sconfitta dallo scontro con Alessandro Magno. Nel 332 a.C. il re macedone entra in Egitto e fonda sul Delta la sua capitale, Alessandria. Nectanebo II è l’ultimo egiziano a regnare: dopo di lui, e per i successivi secoli fino al Novecento, il Paese è controllato da potenze straniere. D’ora in poi i templi tradizionali diventano il fulcro di rivolte di stampo nazionalista, tutte fallimentari, che aspirano a riportare sul trono un faraone egiziano.
Alla morte di Alessandro, nel 323, l’impero è spartito fra i suoi generali, e il suo compagno d’armi e amico, Tolomeo figlio di Lago, riesce ad accaparrarsi l’Egitto, fondandovi una nuova dinastia, i Lagidi o Tolomei, che regna tre secoli. I Tolomei, che pure assumono titolo e prerogative religiose dei faraoni, adottano un metodo di governo che diremmo quasi coloniale. La cultura greca è d’élite, quella egiziana è subalterna. Sotto i primi due sovrani, l’Egitto è un impero mediterraneo di grande prestigio culturale. Poi le guerre con la Siria, i conflitti dinastici, e soprattutto l’ascesa di Roma (a cui Polibio aggiunge la decadenza morale dei Tolomei) indeboliscono sempre di più la monarchia, che diventa prima protettorato, poi regno cliente, e infine, con la morte dell’ultima sovrana, Cleopatra, nel 30 a.C., provincia romana.
Livia Capponi
E l’oro della Spagna non luccicò più
Caraibi, Messico, Perù, Filippine e il cuore dell’Europa, diviso tra domini tedeschi e mondo iberico: in pieno XVI secolo le bandiere spagnole sventolavano ormai su tutto questo. Non plus ultra aveva assunto Carlo V come motto, alludendo con questo all’illimitata espansione dei suoi possedimenti e alla vertigine di quella grande stagione di esplorazioni. E il suo fu davvero un impero, nel senso più profondo e vasto del termine. Una storia dinastica e un’ideologia politica che lo collegavano direttamente alle antiche radici romane; una geografia che gli faceva abbracciare letteralmente il mondo intero. Ma a suo modo un impero effimero. Troppo costosi i lussi di corte e il controllo delle periferie; troppo competitivi i nuovi imperi commerciali portoghese, olandese e francese; troppo logoranti le guerre che ne seguirono.
Così, alla morte di Filippo II, nel 1598, le entrate dei possedimenti castigliani coprivano appena i costi dello Stato e dei suoi eserciti. E già attorno al 1640 il potere militare spagnolo era ormai fortemente compromesso; consumato all’esterno dai conflitti contro la Francia e l’Olanda e all’interno da numerose ribellioni: quella portoghese che avrebbe condotto alla separazione delle due monarchie e quella catalana che, per quanto repressa, avrebbe continuato invece a covare a lungo sotto la cenere.
Eppure fu un tramonto dorato: fu quello infatti il tempo del Siglo de Oro; il secolo della pittura di Velázquez e Murillo e della letteratura di Cervantes e Quevedo. Un’arte che nel suo splendore raccontò anche di una realtà ormai vertiginosa e inafferrabile; proprio come la natura stessa di quell’impero immenso. Ma lo splendore nascondeva a stento il baratro che separava i – pochissimi – ricchi dall’immensa moltitudine dei poveri. Quello che già nel secolo precedente aveva raccontato il romanzo anonimo Lazarillo de Tormes (1554), modello di una tradizione letteraria destinata a grande fortuna: rappresentazione di un mondo di hidalgos squattrinati, che cercano di raccogliere furtivamente le briciole della tavola di corte, e di picari spinti ossessivamente dalla fame nelle loro peripezie.
Alla fine del Siglo de Oro la paralisi si fece tangibile. Intanto, nel 1700 si spegneva l’ultimo Asburgo di Spagna e vennero gli anni dei Borbone, con buona soddisfazione di Parigi. L’economia al collasso, l’amministrazione in un crescente disordine e nuovi ideali nazionalisti che germogliavano ovunque, anche nelle colonie sempre più lontane. L’Ottocento si aprì nel peggiore dei modi: la disfatta franco-spagnola di Trafalgar contro l’Inghilterra (1805) e le imposizioni di Napoleone. Il 2 maggio 1808 Madrid insorse contro i francesi e subì una violenta repressione. Francisco Goya avrebbe raccontato quelle ore drammatiche in una delle sue opere più famose: il cielo nero e la città cupa che si stagliano sullo sfondo e i volti drammatici dei condannati a morte illuminati dal chiarore livido di una lanterna. Si apriva un lungo periodo di conflitti tra anime della Spagna inconciliabili.
L’impero era ormai perduto: negli anni Venti, sulla spinta dello stesso fermento nazionalista, Messico e Perù conquistavano l’indipendenza. Altri sarebbero seguiti presto. Quello che rimase durò pochi decenni ancora: nel 1898 giunsero la guerra contro gli Stati Uniti e la perdita degli ultimi resti delle colonie americane. Mai come in quel momento la Spagna percepì il senso della fine: una crisi di coscienza di tale gravità che sarebbe passata alla storia come il Desastre, disastro per antonomasia, senza aggettivi. Si chiudeva forse solo allora la storia secolare della fine di un impero.
Alessandro Vanoli

Da cittadini a sudditi. Addio Roma
Proporre in breve una soluzione al mai risolto dibattito circa le ragioni che condussero alla fine dell’Impero romano è impresa improba. Per cercare di comprendere si può forse partire da un quesito: quale fu l’ultimo atto? La «caduta senza rumore» – 476 d.C. – di una stremata parte occidentale? O, ben dopo, lo spezzarsi del Mediterraneo, il mare nostrum a lungo unificato nell’orbe romano? O un altro momento ancora?
Le concause furono molte, dall’immiserimento economico dell’Occidente al cataclisma etnico delle invasioni; ma le origini prime del fenomeno sono assai più remote e vanno cercate nel lento smarrirsi di un’etica. A lungo caratterizzata da «una duttilità e una lungimiranza nell’esercizio del potere che, insieme con gli straordinari risultati ottenuti in politica estera, ne giustificarono… la plurisecolare presenza al vertice della res publica … la nobilitas romana era stata con ogni probabilità la miglior classe dirigente della storia» (Giuseppe Zecchini). Questo carattere l’aveva resa dura a morire; ma infine un profondo mutamento spirituale e una gretta chiusura l’avevano snaturata facendola carnefice di se stessa. Sopravvisse però, pur sopito, l’ ethos che l’aveva resa grande, il senso del dovere ( munus ) verso lo Stato vantato come blasone dai suoi membri; a mantenere e ravvivare il quale contribuì in primo luogo la filosofia, soprattutto lo stoicismo.
Pur scavalcata dal principato, l’aristocrazia continuò a proclamare il suo orgoglio per i primi tre secoli dell’Impero; e, in nome del merito, a cullare con tenacia le proprie ambizioni, pur contentandosi sempre più di identificarsi col principio che voleva, se non un impossibile ritorno alla forma repubblicana, almeno l’ optimus sul trono. Avrebbero surrogato e in parte sostituito questa casta i cavalieri; che ne avrebbero, da ultimo, raccolto l’eredità, etica prima ancora che di potere. Divenuti ceto di servizio, essi avrebbero via via maturato una vocazione politica nuova, divenendo i più gelosi custodi dell’antica concezione del munus da rendersi alla res publica; e, in nome soprattutto di una funzione bellica, di cui la progressiva rinuncia dei patres avrebbe finito per lasciar loro l’esclusiva, avrebbero preso infine, da soldati, a rivendicare per sé la summa imperii, portando sempre più spesso alla porpora imperiale i viri militares emersi dalle loro file.
Salvo che in alcuni tra i suoi esponenti, la funzione imperiale ambiva però da sempre a farsi assoluta, secondo un modello orientale; e aspirava a sciogliersi dall’obbligo morale di giustificare il proprio potere. Più volte fallita, fino forse a Gallieno, la svolta assolutista riuscì con Costantino, grazie anche all’alleanza con il cristianesimo, che da San Paolo in poi vedeva un’origine divina in ogni potere.
Distruggendo il rapporto esistente con la responsabilità, la libertà per il sovrano dal munus verso lo Stato trasformava però i cittadini in sudditi, sciolti a loro volta dalla responsabilità e tenuti ormai solo a un’obbedienza senza iniziative. Il mondo dell’umana virtù tramontava, sostituito dal potere per grazia di Dio, un premio che non richiedeva giustificazione perché concesso dall’imperscrutabile volontà divina. Alla prima succedeva di fatto, raccogliendone sotto altri presupposti le pretese di universalità, la seconda Roma, quella cristiana; e avrebbero giustificato se stesse Dei gratia, in seguito, anche le monarchie per diritto divino che avrebbero retto l’Europa fino a tutto il XVIII secolo. La fine della prima Roma è la fine del civis, del cittadino. Per tornare alla vocazione del potere come responsabilità verso la «cosa di tutti» occorrerà la scossa traumatica della Rivoluzione francese.
Giovanni Brizzi

Cina, il lungo impero sogna ancora
Nessun regno è durato tanto quanto l’Impero cinese: dal 221 a.C. al 1911. In tale lasso di tempo si sono alternati momenti di unità e di divisione, di splendore e di decadenza, senza che mai si rompesse quel filo conduttore che ha segnato la storia dell’Asia orientale per oltre due millenni. I gesuiti ci hanno trasmesso l’immagine, confezionata dalla storiografia tradizionale cinese, di una Cina retta da governanti illuminati, dove prevaleva una concezione razionale dell’ordine naturale e trovava applicazione uno stile di vita armonioso e pacifico.
Ignorando la complessità del processo storico nel suo concreto manifestarsi, tale visione ha favorito il diffondersi in Occidente della rappresentazione di un Paese statico, fossilizzato in un sistema istituzionale e ideologico immutato nel tempo che ne bloccava lo sviluppo in chiave moderna. Nulla di più lontano dalla realtà storica. Dopo la prima fase dell’Impero, durante la quale furono gettate le basi dello Stato centralizzato e di un apparato burocratico ideologicamente omogeneo e furono fissati i canoni letterari ed estetici che definiranno la classicità cinese per i secoli a venire, ebbe inizio una graduale fase di declino. Una fase causata da debolezze strutturali intrinseche al sistema, dalla contrapposizione tra i grandi proprietari fondiari e lo Stato centralizzato e dalle pressioni esercitate lungo le frontiere nord-occidentali dalle popolazioni «barbare» delle steppe.
Tali fattori di crisi si sarebbero ripresentati con costante periodicità. Ebbe così inizio il Medioevo cinese. I «barbari» di origine Xiongnu, Jie, Xianbei, Qiang e Di si impossessarono dei territori settentrionali dell’Impero e spinsero i cinesi a sud. L’immissione di energie nuove e il concomitante mantenimento delle antiche tradizioni imperiali si rivelarono vincenti e l’Impero trovò la forza di ricompattarsi. Le antiche strutture burocratiche vennero rinnovate, mentre l’aristocrazia «barbara» del nord si sostituì, gradualmente, a quella cinese, integrandosi e divenendo più cinese dei cinesi.
Nacque così, tra la fine del VI secolo e l’inizio del VII, il secondo grande Impero, durante il quale la Cina divenne la massima potenza mondiale dal punto di vista economico e tecnologico, primato che mantenne per oltre otto secoli. Nel frattempo ci furono nuove occupazioni da parte dei Qidan, dei Tanguti, dei Nüzhen, finché nel 1271 i mongoli riuscirono a conquistare e riunificare tutto l’Impero, dando vita alla prima dinastia non cinese degli Yuan. Dopo un periodo di restaurazione grazie ai Ming, fu la volta dei mancesi, che nel 1644 fondarono la dinastia Qing. Il processo di sinizzazione interessò tutti i popoli invasori e la continuità istituzionale, culturale e ideologica ebbe sempre il sopravvento, consentendo all’Impero di sopravvivere fino al 1911, quando, ormai incapace di adattarsi ai mutamenti avvenuti al suo interno e nel mondo, fu annientato dall’impatto con l’imperialismo occidentale e giapponese.
Le guerre dell’oppio di metà Ottocento diedero inizio a quello che i cinesi ricordano come il «periodo dell’umiliazione nazionale». A differenza di quanto successo in altre parti del mondo, in Cina l’organizzazione imperiale è riuscita a superare ogni crisi e a riproporsi ogni volta in chiave più moderna, garantendo stabilità ideologica e politica a un immenso territorio per oltre duemila anni. Nel rivendicare oggi per la Cina un ruolo di primo piano, il leader attuale Xi Jinping intende riaffermare una linea di continuità con un passato glorioso, enfatizzando l’appartenenza a una civiltà millenaria. Quasi si trattasse dell’ennesimo tentativo di restaurazione imperiale.
Massimo Scarpari