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 2017  ottobre 28 Sabato calendario

Caccia a Satoshi Nakamoto il cyber economista che ha inventato la criptovaluta bitcoin. Non si sa chi sia. E nemmeno se sia mai esistito

Giornalista e romanziere inglese, Andrew O’Hagan viene assunto da un pool di editori per scrivere la biografia di Julian Assange, l’hacker australiano che voleva essere il Garibaldi o il Che Guevara dell’antidiplomazia digitale, ma che invece d’un rivoluzionario era diventato una rock star, più tracotante e capricciosa (ma anche meno interessante) della media.
Boss di WikiLeaks, molto apprezzato dai servizi segreti russi, accusato di stupro dalle autorità svedesi, Assange era l’uomo che aveva spiattellato ai quattro venti i segreti delle principali potenze e che adesso era braccato dalle polizie di mezzo mondo.
Era soprattutto il nemico numero uno dell’amministrazione Obama, e in particolare di Hillary Clinton, di cui aveva preparato la rovina violandone il server personale (ma forse furono i russi a farlo) e mettendo on line le sue mail ufficiali, da segretario di stato. Assange, in cambio del libro commissionato a O’Hagan, incassò (e forse spese subito, come fanno talvolta le rock star, e come fanno sempre i rivoluzionari) un anticipo pari a un milione e mezzo di dollari o giù di lì. Ma la tirava in lungo, prendeva tempo, faceva i capricci; in realtà non voleva che si raccontasse o anche soltanto si sapesse qualcosa di lui, delle sue ragazze, dei suoi amici (pochi, anzi nessuno) e della sua famiglia, dei suoi propositi e programmi, ma solo che si suonasse la grancassa mediatica in suo nome.
Diceva: la mia autobiografia dev’essere un manifesto politico, ma Assange, che all’inizio «ci era sembrato un combattente controcorrente, un uomo immune dai ferali compromessi della politica partitica», in breve si sarebbe rivelato, scrive O’Hagan, un ometto paranoico, dalla cultura improvvisata, i cui «argomenti si limitano a un Voltaire da terza media con un’infarinatura di Chomsky». Del libro, alla fine, non si fece niente (e chissà cosa ne fu dell’anticipo).
Ma Assange non è solo Assange: è un abitatore della rete, un fantasma del web, tra i primi d’una nuova specie, un uomo reale perso per metà in un’identità virtuale. O’Hagan, dopo Assange, viene scritturato per scrivere un libro su un altro hacker australiano, Craig Steven Wright, che un paio d’anni fa dichiarò d’essere il mitico Satoshi Nakamoto, il leggendario cybereconomista che nel 2008 pubblicò il protocollo di «bitcoin», la «criptovaluta», una moneta virtuale che nei prossimi anni potrebbe cambiare la faccia del mondo da così a così, persino più di quanto non abbia già fatto Internet. C’erano in ballo, col libro su Satoshi, bitcoin a camionate. Se Wright avesse dimostrato d’essere l’ideatore dei bitcoin, le aziende di cui era socio o titolare avrebbero rastrellato miliardi sul mercato. Ma Wright era il vero Satoshi Nakamoto o era un simulatore?
Per un momento passò da Satoshi autentico, e anche O’Hagan per un po’ se ne convinse: non entro nei particolari tecnici, anche perché ne mastico poco, o meglio niente, ma le prove sembravano convincenti, e anche altre star della tecnologia bitcoin si dissero convinte che c’era proprio Wright dietro il favoloso «nickname» Satoshi Nakamoto, un genio senza volto, hacker del mistero. Poi Wright rifiutò di produrre la prova finale e chiuse il blog che aveva appena aperto con un’uscita da supernerd: «I’m sorry, mi dispiace, e addio». Dunque non era lui Satoshi (nome preso a prestito dai Pokemon). O lo era? E se non lo era, perchè mai il vero Satoshi, che deve pur esistere, era rimasto in silenzio, senza nemmeno postare un tipico commento sarcastico o minaccioso da nerd, di fronte al tentativo d’usurpare la sua identità? Misteri, ombre e fantasmi del web. «Sarebbe meglio», scrive O’Hagan, «se Satoshi Nakamoto fosse il nome in codice d’un progetto dell’Nsa, o un’intelligenza artificiale inviata dal futuro per far avanzare il nostro primitivo sistema monetario. Ma non lo è; è invece un essere umano imperfetto, come tutti noi».
Benché l’espressione «come tutti noi» sia un po’ esagerata, naturalmente. Prendete Ronnie Pinn, per dire, l’identità fittizia creata da O’Hagan per vedere fin dove si può spingere la macchina che crea gli spettri del web. Ronnie Pinn, un ragazzo morto per overdose da eroina nel 1984, viene riesumato da O’Hagan, che gli fornisce un account Facebook, dati anagrafici, persino un indirizzo dove ricevere vera posta, una carta d’identità e anche un passaporto. Su Facebook ottiene l’amicizia d’una cinquantina di persone, forse reali, forse fittizie come lui. Ordina armi e droga sul dark web, dove non ci sono leggi e l’anarchia regna sovrana, come nelle fantasie del Marchese De Sade. Ha una casella postale. E allora, si chiede O’Hagan? Che storia è questa? Cosa succede dietro le quinte del mondo, nell’inferno delle identità digitali? Quanti sono i fantasmi del web? E quali tra questi fantasmi sono creature deliberatamente messe al mondo da qualche persona in carne e ossa? Tra loro non ci saranno anche fantasmi nati dal nulla, prodotti da una sorta di Creazione 2.0, post e anzi criptoumani del «bitworld», creature generate da un Demiurgo invisibile, nascosto?

Andrew O’Hagan, La vita segreta. Tre storie vere dell’èra digitale, Adelphi