il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2017
Bossetti, che affare essere considerato un assassino
“La nostra quota è sempre sui 25, 25 mila euro a Matrix, (…) mi conoscono in tutta Italia eh. Il mio è il caso più pagato fuori dalla Elena Ceste…”. Diceva così, Massimo Bossetti nel novembre 2014 a sua moglie Marita, durante un colloquio in carcere. Le raccomandava con assoluta freddezza di farsi pagare profumatamente le ospitate tv e di seguire le indicazioni di “Claudio”, che poi è l’avvocato Claudio Salvagni, quello che forse, leggendo le motivazioni depositate dai giudici della Corte d’Assise di appello di Brescia, si starà domandando se il circo mediatico alimentato in questi anni dalla difesa non sia stato un boomerang.
Perché nelle 367 pagine depositate della sentenza (oltre alla montagna di prove contro Bossetti, giudicato colpevole una seconda volta) è evidente l’asprezza con cui i giudici commentano l’operato delle difesa. Su tutti i fronti: quello dell’atteggiamento in aula, quello del galateo tra le parti, quello del loro assistito nelle varie fasi del processo, quello mediatico e pure quello più tecnico ad opera di periti e consulenti di parte. Forse, per la prima volta, leggendo quelle motivazioni, dopo anni di show, ospitate in tv con giacche di tweed e manifestazioni di piazza con armate Brancaleone di innocentisti che hanno imparato il diritto vedendo Forum, l’avvocato Salvagni si starà domandando se un profilo basso sarebbe stato più utile alla causa.
Sono tanti i passaggi in cui i giudici sembrano dire alla difesa: “Avete urlato, gridato, strepitato, avete accusato chi ha fatto le indagini fuori e dentro i laboratori di avere barato, ma alla fine non avevate in mano niente”. Gli aggettivi “fantasiose, irrazionali, irrealistiche” tornano più volte nella descrizione che i giudici fanno delle tesi difensive. Per esempio, ricordano alla difesa che il famoso genetista Peter Gill, quello la cui consulenza secondo Salvagni avrebbe potuto cambiare le sorti del suo assistito, con la difesa si è limitato probabilmente a fare “una semplice chiacchierata di cui non v’è traccia documentale”. Insomma, fuffa. I giudici hanno descritto come “fantasiosa e irrazionale” la tesi della difesa secondo la quale una foglia trovata sotto il capo di Yara (che dimostrava la permanenza del corpo nel campo in quei tre mesi) era stata in realtà introdotta in laboratorio da qualche operatore.
Poi c’è la faccenda del furgone e delle analisi del consulente della difesa Ezio Denti, volte a dimostrare che il veicolo ripreso dalle famose telecamere non è di Bossetti. Vengono smontate pezzo per pezzo. I giudici spiegano a Denti che le sue misurazioni fatte a suon di “leggermente superiore o leggermente più avanti” sono leggermente poco scientifiche. Che sempre nelle sue misurazioni confonde un edificio con una cancellata. Ma, soprattutto, gli spiegano che nel misurare la distanza tra le due ruote anteriori, ha cerchiato una ruota giusta e l’altra che però non è la ruota ma un cartello stradale, più precisamente il cartello “orario ricevimento merci”.
Veniamo alla storia del Dna. I giudici premettono che non sono tenuti a disporre sempre e comunque una perizia. Aggiungono poi che in realtà tra i consulenti dell’accusa e della difesa non c’è praticamente contrasto, ma che il contrasto è al limite tra i consulenti dell’accusa e le opinioni dei difensori. In parole povere: avvocato Salvagni, se non tu non sei d’accordo col Ris, ci dispiace molto, ma tra la scienza e l’opinione, saremmo dell’idea di fidarci della scienza. In più, il consulente della difesa Marzio Capra (genetista) viene asfaltato perché i giudici, nel respingere la sua tesi sulle analisi del Dna fatte con kit scaduti, gli svelano un particolare, ovvero che non lavora da così tanto tempo nel Ris da non sapere neppure che il Ris ha aggiornato i suoi software. E che in caso di reattivi scaduti, il sistema avverte del problema. Poi ci sono le considerazioni sull’atteggiamento con i media.
I giudici scrivono: “La difesa si è anche lamentata del clamore mediatico per la vicenda di Yara. (..) Appare alquanto singolare che la difesa e l’imputato abbiano dato il consenso, unici tra le parti, alla ripresa audio e televisiva del processo di secondo grado, di seguito non autorizzata dalla Corte”. Del resto, le intercettazioni ambientali in carcere tra Bossetti e la moglie Marita commentate con severità nelle motivazioni, dipingono un quadro agghiacciante. “La nostra quota è sempre sui 25 mila a Matrix (…) Se viene fuori un’altra occasione io farei di tutto Marita, (…) loro stanno tentando di farti fare le interviste…”, dice Bossetti alla moglie. “C’ho litigato io con Claudio (Salvagni, ndr)… che poi è anche uno pieno di soldi tra parentesi”, risponde Marita. Allora il marito le spiega che i soldi delle ospitate deve girarli a Salvagni: “Gliel’ho detto, quelli che mi arrivano di Matrix, glieli giro a loro. Sai quanti vorrebbero assumersi il mio caso? Mi conoscono in tutta Italia. È il caso più pagato fuori dalla Elena Ceste. Il primo mese ‘non si preoccupi lavoro gratis, il secondo devo pagare!’”. E ridono, Marita e Massimo. Non sanno che tre anni dopo questo disinvolto cinismo sarà commentato dai giudici con le seguenti parole: “Stanno parlando del vantaggio economico che possono trarre dal processo con memoriali e ospitate poi effettivamente avvenute. L’atteggiamento psicologico di Bossetti non è certo quello di colui che è disperato e che proclama la sua innocenza (…) ma quello di chi cerca di gestire a suo vantaggio il clamore mediatico sorto dalla vicenda”.
E questo passaggio, alla fine, contribuisce a raccontare non solo il cinismo di un assassino, ma anche e soprattutto quello del sistema da cui si è fatto risucchiare con la complicità di un avvocato amante dei riflettori e di impeccabili abiti di sartoria che costano molto: quanto un’ospitata a Matrix.
Forse un po’ più di sobrietà e una difesa meno aggressiva, avrebbero giovato a tutti. Non alle sorti processuali del suo assistito, questo è evidente, ma sicuramente al decoro e alla dignità di un processo. Oltreché a quello che troppo spesso le urla in tv hanno impedito di ricordare: la vittima, Yara Gambirasio, tredici anni, morta di stenti, paura e freddo la notte del 26 novembre 2010.