SportWeek, 14 ottobre 2017
Non ho messo radici ma ho trovato rispetto. Intervista a Marco Belinelli
UItima tappa Atlanta (per ora). Il Giro d’America di Marco Belinelli fa tappa agli Hawks. ottava squadra in 11 anni di Una stagione a 6 milioni di dollari, poi sarà free agent non saranno ancora i Falchi della Georgia, troverà certamente un’altra franchigia disposta a offrirgli spazio nel roster. Perche, a 31 anni e 6.200 punti segnati nella sua carriera oltreoceano (quasi 10 di media a partita a stagione). Marco Belinelli da San Giovanni in Persiceto, Bologna, il giocamene considerato tra tutti gli italiani sbarcati negli Usa in questi anni é il solo a vincere un titolo dopo essersi costruito pezzo per pezzo una credibilità anche tra i professionisti, è oggi per tutti i coach americani sinonimo di affidabilità e rendimento. Un soldato con le mani da generale, un tiratore capace di completarsi fino a diventare un eccellente tiratore e un dignitoso difensore.
Perché ha scelto gli Hawks? Sono in ricostruzione e quindi con poche possibilità, almeno sulla carta, di playoff.
«Perché è una squadra giovane che gioca una bella pallacanestro. E allenata da Mike Budenholzer. che a San Antonio è stato vice di un santone della panchina come Popovich, col quale ho vinto l’anello. Mi ha voluto, mi considera un giocatore intelligente e il suo giudizio mi onora. Tutti mi hanno parlato benissimo di lui e credo che Bud rappresenti l’autentico valore aggiunto della squadra. Se la sua gestione dello spogliatoio ricalcherà quella di Popovich, che ha contribuito a fare la fortuna degli Spurs. sono sicuro che faremo bene».
Agli Hawks troverà probabilmente posto in quintetto, dunque quello spazio che poche volte le è stato concesso in questi anni. È l’occasione per consacrarsi definitivamente anche nel basket prò?
«Non so. So che è un anno importante per me proprio perché a fine stagione sarò libero di rinegoziare il contratto o con la stessa Atlanta o con un team più importante. Ho perciò tutto l’interesse a far bene».
Avrà finalmente più responsabilità individuali, ma in una squadra che pare destinata a fare da comprimaria.
«Probabilmente sarà così. Rispetto all’anno scorso gli Hawks hanno perso Millsap, ed è stata una brutta botta. Non credo che sia grave invece la partenza di Howard: non l’ho mai considerato un giocatore decisivo. In campo dovrò essere aggressivo, anche per dare coraggio ai più giovani. Ma non è detto che faremo tappezzeria, a Est la concorrenza è meno forte che a Ovest. Forse partiamo ultimi, ma questo non significa nella stessa posizione».
Ritrova il tedesco Dennis Schròder, che ha affrontato con la Nazionale all’Europeo.
«Velocissimo, con un primo passo straordinario. Ha giocato con tiratori come Korver e Hardaway, sono fiducioso che troveremo l’affiatamento giusto».
Si è dato una spiegazione del fatto che, nonostante tutti a parole la stimino, non è riuscito a conquistarsi finora un ruolo di primo piano nella Nba?
«Mah, dipenderà forse proprio dal fatto che piaccio a tanti (sorride). Questo mi ha permesso di essere cercato da molte squadre in questi undici anni. Io non ho mai pensato di restare in un posto per tutta la carriera, tranne forse che a Chicago e a San Antonio, dove stavo davvero bene e giocavo in squadre di altissimo livello. Ma il mondo della Nba è davvero strano, le cose possono cambiare da un giorno all’altro. Magari un allenatore non ti vede bene, magari a metà stagione arriva quello nuovo che sovverte gli equilibri della squadra e tu scivoli indietro nelle gerarchie...».
Ha faticato ad abituarsi a questa sensazione di perenne provvisorietà?
«Mi sono sempre concentrato sugli obiettivi davvero importanti. Il primo dei quali è di farmi stimare e trovare pronto qualunque sia il mio ruolo. Poi, certo, i soldi: non sono vecchio né giovane, ma voglio una sicurezza economica. Certe mie scelte sono dipese anche dallo stipendio che mi è stato offerto, sarei un ipocrita a negarlo. A maggior ragione questo aspetto avrà valore nelle decisioni che prenderò a fine stagione, quando sarò freeagent».
Di cosa va orgoglioso in questi anni americani?
«Del rispetto che mi sono guadagnato da giocatori e allenatori. Dà soddisfazione veder riconosciuti il proprio talento e i propri sacrifici».
La scelta che non rifarebbe?
«Tutte quelle che ho preso le ho affrontate e portate fino in fondo. Perché ogni scelta, per sbagliata che possa rivelarsi, va rispettata. Così non rinnego l’aver lasciato la Fortitudo per sbarcare in America, oppure essere andato a Chicago perché sentivo che era il posto giusto dove crescere come giocatore nonostante ci fossero altre squadre che offrivano di più».
La scelta invece che rimpiange di non aver compiuto?
«Ora come ora, direi nessuna. Vale il discorso fatto prima. Forse a fine carriera le risponderò in un’altra maniera, se nel frattempo non sarò riuscito a vincere qualche altro trofeo».