SportWeek, 14 ottobre 2017
Danilo Gallinari: non ho più l’età, ora devo vincere
Io, Griffin e Jordan siamo il miglior frontcourt della Nba», dice Danilo Gallinari a proposito dei due compagni che insieme a lui formeranno la batteria di lunghi dei Los Angeles Clippers, la sua nuova squadra. Lo dice netto e deciso, senza nascondersi. Fa bene. Dopo un’estate come quella appena trascorsa, l’unica cosa che non deve fare il Gallo è restare nell’ombra, evitando gli sguardi e le attenzioni altrui. La luce dei riflettori è il destino dei grandi, a maggior ragione quando hanno qualcosa da farsi perdonare. E Danilo Gallinari, 29 anni, ala grande, nona stagione nella Nba, deve riscattare – con il comportamento prima ancora che nel rendimento la sciocchezza commessa a fine luglio con addosso la maglia più importante, almeno agli occhi di un tifoso italiano: quella della Nazionale.
«Ho detto e ripeto che ho fatto un errore, reagendo in quel modo, con un pugno, alla gomitata in gola che mi aveva tirato l’olandese Kok. Ho dato una cattiva immagine di me stesso e ho messo nei guai il commissario tecnico Messina e i compagni, perché quel pugno mi è costato la frattura della mano destra e quindi la rinuncia all’Europeo. La squadra non meritava che la lasciassi in difficoltà. Mi sentivo parte del gruppo. Sentivo, soprattutto, di esserne una parte importante». Pensare all’Europeo che poteva essere con Gallinari e non è stato, fa soltanto male. Meglio pensare, specialmente da parte del diretto interessato, a quella che potrà essere la sua nuova vita professionale ai Clippers: la prima squadra con la quale può puntare a vincere. O, per lo meno, sperare di farlo. Comincerà a farsene un’idea giovedì prossimo, il 19, nel derby di inizio stagione con i Lakers.
È arrivato il momento di vincere?
«Per me sì. Data l’età, considerati l’esperienza accumulata in questi anni e il livello del mio gioco, dico che è arrivato il momento. Ma dico pure che sarebbe stato più facile vincere l’oro con l’Italia all’Europeo. Giocassi a Est, sarei tentato di scommettere su una finale di Conference; a Ovest la vedo dura, per la qualità della concorrenza».
Cosa lascia a Denver?
«Stagioni fantastiche, tanti ricordi, amici, un legame profondo e sincero con i Nuggets, i panorami stupendi del Colorado, con le Montagne Rocciose su tutti. Denver ha una qualità della vita molto alta, è sicuramente nella top list delle città nelle quali potrei andare a vivere a carriera finita».
Cosa trova invece a Los Angeles?
«In campo, una squadra molto forte, una franchigia ambiziosa che ha un progetto importante. Fuori, una città unica al mondo, che mi dà la possibilità di conoscere persone e fare esperienze che difficilmente potrei vivere altrove».
Ha vissuto e giocato a New York: non dovrebbe perciò essere spaventato da Los Angeles, anche se il salto da un centro relativamente piccolo come Denver si farà sentire.
«New York e Los Angeles sono molto simili ed è una cosa che mi piace. Viverle da giocatore poi le rende ancora più speciali. Il pubblico losangelino non è lo stesso di quello della Grande Mela, scottato da troppi anni di anonimato, ma è comunque esigente perché aspetta di vincere. E questa pressione, se sai gestirla bene, può solo aiutare un giocatore. L’unica cosa che mi preoccupa è il traffico. Mi abituerò».
Conosceva di persona qualcuno dei suoi nuovi compagni?
«Griffin e Jordan li ho frequentati proprio in qualche mia puntata a Los Angeles. Alai presentazione di Las Vegas ho fraternizzato con quasi tutti gli altri».
Chi è più simpatico tra Griffin e Jordan?
«Blake è un po’ più tranquillo perché ha una compagna e due figli, l’altro è più esuberante, diciamo».
Avete già deciso chi di voi tre prenderà il tiro decisivo in una partita che conta?
«Beh, c’è anche coach Doc Rivers che non mi pare proprio l’ultimo arrivato nel ripartire le responsabilità tra i giocatori...».
Senza Chris Paul cosa perdono i Clippers?
«Lui era un leader e dava alla squadra uno stile di gioco definito che adesso per forza di cose cambierà».
Sarebbe stato meglio per lei se fosse rimasto?
«I nuovi Beverley e Teodosic sono due ottimi play, Austin Rivers gioca ad alto livello da due stagioni, Lou Williams è forse il miglior sesto uomo del campionato: direi che a livello di guardie siamo messi bene».
Teodosic si adatterà al suo stile di gioco e a quello della Nba in genere?
«Secondo me sì. Vede il gioco come pochi, è un eccellente passatore. Nella prima amichevole ha distribuito 8 assist nei 20 minuti in cui è stato in campo».
A Denver lei era la prima opzione offensiva. Come ci si sente a diventare la seconda o la terza?
«Credo che le due armi offensive principali saremo io e Griffin: DeAndre Jordan è un centro molto dinamico, che fa i blocchi e “rolla” verso il canestro. La palla sarà soprattutto in mano a me e a Blake».
Molti dicono che ai Clippers è mancata in questi anni un’ala grande come Gallinari, un giocatore perimetrale che sapesse offrire diverse soluzioni offensive e giocare in più ruoli. Lei è stato voluto da Jerry West, il “logo“della Nba e oggi dirigente dei Clippers: è più un motivo di orgoglio o una responsabilità?
«L’orgoglio prevale su tutto. Il solo fatto di essere stato scelto da lui dà lustro alla mia carriera e rappresenta qualcosa che potrò raccontare ai miei figli».
Cosa manca ai Clippers per essere da titolo?
«Bisognerà vedere come crescerà la chimica tra di noi. Una volta che il processo sarà completato potrò dire se manca niente, poco, oppure tanto. Golden State rimane la più forte ma io sono un ottimista di natura e credo che possiamo arrivare in finale».M