Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  ottobre 25 Mercoledì calendario

Lo zen e l’arte della moto gp. Intervista a Andrea Dovizioso

Quando parla il Dovi guarda dritto negli occhi, ma quando deve dire qualcosa che davvero gli preme, inizia a tamburellare con le dita sul tavolo, come a voler fissare per bene i pensieri che gli si formano in testa. Ha 31 anni Andrea Dovizioso, l’accento romagnolo,di chi è nato e cresciuto a Forlimpopoli e che ora vive nella campagna li intorno con la compagna Alessandra Rossi. 32 anni, e con la figlia Sara, 7, avuta con l’ex moglie.
Corre in moto da quando era bambino, nel 2004 ha vinto il mondiale delle 125, è arrivato secondo nella 250 nel 2006 e nel 2007, per poi debuttare nel 2008 nella classe regina della MotoGp. Dal 2013 è in sella alla nostra Ducali, ma è quest’anno che gli occhi di tutti si sono puntati su di lui, perché, soprattutto ora con tre Gran premi in tre settimane prima delfultimo del 12 novembre, si sta giocando il titolo mondiale con Marc Màrquez, Maverick Vinales e Valentino Rossi. Ce n’è voluto di tempo per costruire questa ascesa, momenti in cui i risultati mancavano, o se pure arrivavano, passavano sempre in secondo piano rispetto a Rossi, magnete potentissimo della MotoGp. Eppure Andrea non ha smesso un secondo di migliorarsi, di rincorrere il sogno.
Oggi le si legge in faccia quanto è determinato a provare a vincere il Mondiale, ma come ha fatto a non arrendersi in tempi di vacche magre?
«Per anni mi hanno giudicato come uno dei tanti del gruppo, uno che non emerge, ma io ho sempre saputo di essere tra i top. Se sei onesto con te stesso lo sai quanto vali e ti regoli di conseguenza, a prescindere dai risultati. In certi frangenti è difficile non mollare, per questo se mi guardo indietro provo un’enorme soddisfazione per tutto il lavoro che ho fatto, circondandomi della gente giusta e mantenendo una mente aperta. Mi sono allenato su tutti i fronti. tecnico, fìsico, mentale. Mi mancava, per esempio, la capacità di lasciarmi andare, di compiere un’azione sentendo veramente quello che stavo facendo. A partire dalla stagione scorsa ho imparato anche a lavorare davvero con tutta la squadra durante il weekend della gara. È incredibile quanto possiamo cambiare le cose e invece pensiamo di non poterlo fare».
Cos’altro le ha insegnato la MotoGp?
«Che non puoi mai pretendere di raggiungere dei traguardi perché qualcuno ti dà qualcosa. Hai sempre bisogno degli altri, ma la spinta deve arrivare per forza da te. Devi svegliarti tutte le mattine e avere un obiettivo chiaro in testa. So che non per tutti è così semplice trovarne uno. ma bisogna farlo, è troppo importante».
Il suo però è bello complicato da raggiungere.
«Può dirlo forte. La gente forse fatica a rendersi conto che correre in moto è devastante, a ogni curva devi superare limiti fìsici di tutti i tipi. Queste cicatrici suiravambraccio sono i segni di alcuni interventi. a cui quasi tutti noi piloti dobbiamo sottoporci per cercare di dare sollievo ai muscoli che non ce la fanno più a reggere le sollecitazioni pazzesche della guida. In gara quando hai dato il 100 per cento ti accorgi che non basta, devi fare di più».
Che cosa?
«Ti parli. Mentalmente ti ripeti cose tipo: ‘’Dai, ok, ce la facciamo”. Oppure ti auto-tranquillizzi, dicendoti: “Va bene, è successa una cosa brutta, ma mantieni la calma”. La gara in sé è un tormento. non riesci a godere del fatto che siamo in pochissimi al mondo a poter guidare quelle moto incredibili, che hai appena fatto una curva pazzesca. Solo il risultato ti appaga, quando sei al giro finale e subito dopo: lì sì che assapori quello che stai vivendo».
E se la gara va male?
«Ci metti del tempo a metabolizzarla. Hai un down di un paio di giorni in cui devi stare tranquillo e dormire molto. È pesante, ma ti fa crescere, perciò lo devi mettere in conto e andare avanti».
Secondo lei perché certi piloti continuano a correre anche se arrivano sempre tra gli ultimi?
«Perché è sempre meglio che lavorare!».
Che cosa la fa arrabbiare di più?
«La superficialità, fatico a relazionarmi con un certo modo banale e inconsistente di vivere. Ora tutti vogliono una foto con me, ma io me ne accorgo subito se uno è un appassionato che ci tiene davvero, oppure se scatta solo perché poi fa figo postarlo sui social media. Allora io sto zitto, so che devo sottostare a questo rito del selfie: se non lo faccio, per la gente sono uno stronzo. E, se a me capita così, riesce a immaginare che cosa vuol dire essere Valentino Rossi?». 
Al di là di come va in moto, c’è qualcosa che ammira in particolare di Rossi?
«Trovo fantastico quello che sta facendo con la Academy, che ha creato a Tavullia nel 2014 per formare nuovi talenti. Di solito tra piloti non si diventa amici, invece questa formula li favorisce nel confrontarsi e costruire dei rapporti. Io sarei contentissimo di potermi allenare con i miei avversari, ma non si fa. Poi, l’aver corso ad Aragón il 24 settembre, solo venti giorni dopo la frattura alla gamba, ha avuto deH’incredibile, perche dimostra quanto grande sia il suo sogno».
Ha già pensato a come festeggiare se vince il Mondiale?
«No, perché non ne avrei bisogno. Emozionare la gente con quello che faccio mi ripaga tantissimo, se vinco, non mi servirà altro». 
Ma nemmeno un giro per Forlì con il braccio fuori dal finestrino? 
«Per carità, già mi vergogno così. Se provassi a fare “lo sborone”, mi verrebbe male di sicuro e non c’è niente di peggio di uno sborone sfigato. In realtà io adoro essere al centro dell’attenzione, lo faccio da quando sono bambino, ma a modo mio».
Se finisse su un’isola deserta con il suo ex compagno di squadra Andrea (annone, attuale fidanzato di Belén, con cui ha avuto forti screzi, come finirebbe?
«Oggi non saprei dire perché in questo anno l’ho visto molto cambiato, ma non ci ho più avuto a che fare. Quello che penso è che, se dieci anni fa ci fossimo trovati io e lui da soli, saremmo diventati amici».
Che cosa ha imparato dal suo rivale Marc Màrquez?
«È pazzesco come riesca a superare gli errori. Prima di Marc, se facevi uno sbaglio la gara la consideravi segnata. Lui non dà importanza alla sbavatura, ci mette qualche giro a riprendersi e poi va ancora più forte». 
Come si confronta con il rischio, con la morte?
«Ho un tatuaggio che dice che sono padrone del mio destino, ma solo il destino conosce la fine del cammino. Noi piloti sappiamo che può succedere e, quando accade, ci appelliamo a una sorta di egoismo positivo, concentrandoci su di noi. Non è menefreghismo. Con Marco Simoncelli però è stato diverso. Non eravamo amici ma quel giorno del 2011 a Sepang, quando è morto, ho sentito per la prima volta un vuoto dentro. Lui era da sempre il mio avversario, dopo mezz’ora che ero tornato in pista sono esploso in un misto di pianto e rabbia».
È un tipo romantico?
«No, non mando fiori e non scrivo messaggi d’amore. Mi salvo perché nemmeno Alessandra lo è e perché io sono dolce».
Cibo preferito?
«Dolci, pasta e pizza. Vorrei poterne mangiare all’infinito, ma mi piace anche la cucina giapponese».
Ha qualche scaramanzia prima delle gare?
«Infilo sempre prima il guanto e lo stivale di sinistra, solo perché mi viene più comodo. E c’è una cosa che devo fare prima di salire in moto: la pipì! I piloti bevono di continuo per scongiurare la disidratazione, perciò ogni due per tre si pone il problema. Il mio meccanico Fabio ha modificato uno scarico della moto in modo che io possa usarlo lì nei box. Non è mica semplice fare pipì con una tuta di pelle addosso con la cerniera che non si apre fino in fondo e con il casco in testa, così si adottano soluzioni creative».