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 2017  ottobre 25 Mercoledì calendario

I tecnomisteri di mr. Bitcoin

Il padre di Craig Wright. Frederick Page Wright, aveva prestato servizio in Vietnam come esploratore nell’8° Battaglione dell’esercito australiano. «Perse tutti i suoi amici», mi disse Wright, «fino aH’ultimo». Poco dopo cominciò a bere e a picchiare la madre di Wright, che alla fine lo lasciò. Sia Wright sia la madre. che andai a trovare a Brisbane nel marzo 2016. mi raccontarono della rabbia del padre contro la moglie: lui spediva a casa tutti i soldi guadagnati sotto le armi, e lei li spendeva in sua assenza. Sognava anche una carriera da giocatore di football che non si realizzò mai. «Io avrò pure il dente avvelenato», disse Wright. «ma il suo lo era di più».

«Lo ammiravi?».
«Lui non ha mai ammirato me. Cazzo, non ero mai abbastanza bravo. Giocavamo a scacchi da quando avevo tre o quattro anni, e se facevo una mossa sbagliata mi tirava una sberla. Fu una lotta fin dal principio».
Due persone esercitarono una profonda influenza su Craig ragazzo. Il primo fu il nonno, Ronald Lyman, che a detta della famiglia fu la prima persona a conseguire il titolo presso la Marconi School of Wireless in Australia e che prestò servizio nell’esercito come ufficiale segnalatore. Dicono anche che in seguito divenne una spia per i servizi segreti australiani. Il luogo preferito di Craig era la cantina del nonno. un paradiso dell’informatica delle origini. «Stavamo lì a guardare libri zeppi di tavole logaritmiche. Mi divertivo un mondo». Il capitano Lyman aveva un vecchio terminale e un modem Hayes 80-103A, che usavano per collegarsi alla rete dell’Università di Melbourne. Per farlo stare buono mentre lui lavorava, pà, come lo chiamavano da bambini, gli faceva scrivere del codice. «Mi imbattei in questa comunità di hacker e capii come interagire con loro. Cominciai a scrivere giochi e a hackerare quelli altrui. Col tempo imparai a smontare un codice, e alla fine diventò un lavoro, aiutare le aziende a difendersi dagli hacker».
Sua madre mi raccontò che a volte a scuola veniva preso di mira. «Non fu facile per lui», disse, «ma dopo un po’ lo mandai al Padua College» una scuola privata cattolica di Brisbane –, «dove primeggiò. Certo, era diverso. Si vestiva in maschera e aveva un’ossessione per la cultura giapponese. Aveva questi spadoni da samurai».
«Da ragazzo?».
«Vestito da samurai, con quelle strane scarpe di legno e tutto il resto. Faceva anche i rumori. Le sue sorelle si lamentavano perché le metteva in imbarazzo: “Siamo giù al parco coi nostri amici, e lui e là che gira coi piedi palmati”. Aveva un gruppetto di amici nord, negli anni Ottanta: venivano a casa nostra coi loro occhiali con montatura di corno a giocare per ore a Dungeons & Dragona». Aveva un insegnante di karaté di nome Mas che lo fece passare rapidamente dal karaté al judo al ninjutsu. Craig si rompeva di continuo le nocche, e «questo mi ha reso più forte», mi disse, perche «il dolore mi ha portato a un “me” più tenace». Ciò che più lo attirava delle arti marziali era la disciplina. L’addestramento per diventare un ninja include diciotto discipline, tra cui bojutsu (tattica), hensojutsu (travestimento e imitazione), intonjutsu (fuga e occultamento) e shinobiiri ( furtività e infiltrazione). Tornava a casa dalle lezioni sentendosi più forte, quasi un’altra persona.
A diciotto anni Wright entrò nell’aeronautica. «Mi chiusero in un bunker a lavorare a un sistema di bombardamento. Bombe intelligenti. Serviva del codice veloce, e io glielo scrissi». A ventanni sulla schiena gli apparve un melanoma e dovette fare diversi innesti epidermici. «Quello fu dopo che lasciò l’aeronautica», mi disse la madre. «Quando si ristabilì, parti per l’università, e da allora sono stati titoli su titoli su titoli». Si iscrisse all’Università del Queensland per studiare ingegneria dei sistemi informatici, e nei successivi venticinque anni terminò, o non terminò, o terminò senza discutere la tesi, corsi di laurea in informatica forense, fisica nucleare, teologia, gestione d’impresa, sicurezza delle reti, diritto commerciale internazionale, statistica. Dopo la nostra prima intervista vera e propria, tornò a casa a lavorare a un compito per il nuovo corso che frequentava all’Università di Londra, un master in finanza quantitativa.
Nei mesi trascorsi insieme notai che amava la nozione di eroismo ed era affascinato dai miti della creazione. Una delle prime cose che mi inviò per email fu la copia di una delle sue tesi di laurea. Le radici cantorie di un mythos della creazione. Era dedicata a Mas. il suo maestro di arti marziali. (…) Wright disse di non essersi mai aspettato che il mito di Satoshi acquisisse una tale forza. «Tutti usavamo degli pseudonimi», mi spiegò. «Faceva parte dell’etica cypherpunk. Ora la gente si aspetta che Satoshi scenda dalla montagna come un messia. Ma io non sono così. E non volevamo creare alcun mito». 1 fan di Bitcoin amano Satoshi perché ha creato una cosa bella e poi è sparito. Non vogliono che Satoshi si sbagli o si contraddica, che sia borioso o irascibile, e certamente non vogliono che sia un quarantacinquenne australiano di nome Craig.
Leggendo le idee di Wright sulla creazione, non potevo smettere di pensare al suo insegnante di karaté e al ruolo che aveva giocato nella vita del ragazzo. Una sua osservazione estemporanea continuava a ronzarmi in testa. Riguardava l’affabulazione, e come un possibile significato del concetto di «libertà» potrebbe risiedere non soltanto nelle arti marziali. nella capacità di difendersi, ma nella capacità di creare se stessi. Mas «mi insegnò parecchia filosofia orientale e mi diede i mezzi per diventare me stesso», disse Wright. Un giorno Mas gli raccontò di Tominaga Nakamoto. «Era un mercantefilosofo giapponese. Ho letto traduzioni delle sue opere, roba della metà del Settecento».
Settimane dopo, mentre bevevamo il te nella cucina della casa che Wright aveva affittato a Londra, notai sulla scrivania un libro dal titolo Visioni della virtù nel Giappone dei Tokitgawa. All’epoca mi ero già messo al lavoro ed ero ansioso di chiarire la questione del nome.
«Quindi è da lì che dicevi di aver preso il nome Nakamoto?», domandai. «Dall’iconoclasta del diciottesimo secolo che criticò tutte le credenze della sua epoca?».
«Sì».
«E Satoshi invece?».
«Significa “cenere“», rispose. «La filosofia di Nakamoto è la via di mezzo del commercio, la via neutrale. Il nostro sistema attuale deve essere dato alle fiamme e ricostruito. A questo serve la criptovaluta – è la fenice...».
«Quindi satoshi è la cenere da cui la fenice...».
«Sì. E “Ash” («cenere» in inglese, ndr) è anche il nome di uno stupido personaggio dei Pokémon. 11 ragazzo con Pikachu». Wright sorrise. «In Giappone Ash si chiama Satoshi». «Dunque, in sostanza, hai chiamato l’inventore di Bitcoin come l’amichetto di Pikachu?».
«Già. Questo farà incazzare un bel po’ di persone». Era una cosa che diceva spesso, come se far incazzare le persone fosse un’arte. Quelli della generazione di Wright, tra i quarantacinque e i cinquanta, si trovano davanti un mondo in cui le loro fìsse adolescenziali sono diventale realtà. Per Wright, come per Jeff Bezos (fondatore e Geo di Amazon. ndr), i princìpi che regolano il nostro modo di acquistare, di pensare, di vivere sono sorti direttamente dai sogni che facevano da ragazzi, rintanati in un ripostiglio da qualche parte. «La persona che sperimenta la grandezza deve percepire il mito che la circonda», scrisse Frank Herbert in Dune, il romanzo preferito di Wright da ragazzo. «Dune parla innanzitutto dell’uomo», mi disse. «Del fatto che non dovremmo lasciare il mondo alle macchine ma, piuttosto, svilupparci come esseri umani, lo però la vedo in maniera un po’ diversa da Herbert. Per me non si tratta di dover scegliere tra le due cose – l’uomo o le macchine – ma di una simbiosi, un modo per diventare qualcosa di completamente diverso».
È questa sorta di energia cyberpunk – cosa ben diversa dal cypherpunk, una forma di attivismo nata in seguito, con un interesse specifico per la crittografia – che ha garantito un futuro radioso agli informatici in erba della generazione di Wright.
A diciotto anni VVright entrò nell’aeronautica. «Mi chiusero in un bunker a lavorare a un sistema di bombardamento. Bombe intelligenti. Serviva del codice veloce, e io glielo scrissi». A ventanni sulla schiena gli apparve un melanoma e dovette fare diversi innesti epidermici. «Quello fu dopo che lasciò l’aeronautica», mi disse la madre. «Quando si ristabilì, parti per l’università, e da allora sono stati titoli su titoli su titoli». Si iscrisse all’Università del Queensland per studiare ingegneria dei sistemi informatici, e nei successivi venticinque anni terminò, o non terminò, o terminò senza discutere la tesi, corsi di laurea in informatica forense, fisica nucleare, teologia, gestione d’impresa, sicurezza delle reti, diritto commerciale internazionale, statistica. Dopo la nostra prima intervista vera e propria, tornò a casa a lavorare a un compito per il nuovo corso che frequentava all’Università di Londra, un master in finanza quantitativa.
Nei mesi trascorsi insieme notai che amava la nozione di eroismo ed era affascinato dai miti della creazione. Una delle prime cose che mi inviò per email fu la copia di una delle sue tesi di laurea. Le radici cantorie di un mythos della creazione. Era dedicata a Mas. il suo maestro di arti marziali. (…) Wright disse di non essersi mai aspettato che il mito di Satoshi acquisisse una tale forza. «Tutti usavamo degli pseudonimi», mi spiegò. «Faceva parte dell’etica cypherpunk. Ora la gente si aspetta che Satoshi scenda dalla montagna come un messia. Ma io non sono così. E non volevamo creare alcun mito». 1 fan di Bitcoin amano Satoshi perché ha creato una cosa bella e poi è sparito. Non vogliono che Satoshi si sbagli o si contraddica, che sia borioso o irascibile, e certamente non vogliono che sia un quarantacinquenne australiano di nome Craig.
Leggendo le idee di Wright sulla creazione, non potevo smettere di pensare al suo insegnante di karaté e al ruolo che aveva giocato nella vita del ragazzo. Una sua osservazione estemporanea continuava a ronzarmi in testa. Riguardava l’affabulazione, e come un possibile significato del concetto di «libertà» potrebbe risiedere non soltanto nelle arti marziali. nella capacità di difendersi, ma nella capacità di creare se stessi. Mas «mi insegnò parecchia filosofia orientale e mi diede i mezzi per diventare me stesso», disse Wright. Un giorno Mas gli raccontò di Tominaga Nakamoto. «Era un mercantefilosofo giapponese. Ho letto traduzioni delle sue opere, roba della metà del Settecento».
Settimane dopo, mentre bevevamo il te nella cucina della casa che Wright aveva affittato a Londra, notai sulla scrivania un libro dal titolo Visioni della virtù nel Giappone dei Tokitgawa. All’epoca mi ero già messo al lavoro ed ero ansioso di chiarire la questione del nome.
«Quindi è da lì che dicevi di aver preso il nome Nakamoto?», domandai. «Dall’iconoclasta del diciottesimo secolo che criticò tutte le credenze della sua epoca?».
«Sì».
«E Satoshi invece?».
«Significa “cenere“», rispose. «La filosofia di Nakamoto è la via di mezzo del commercio, la via neutrale. Il nostro sistema attuale deve essere dato alle fiamme e ricostruito. A questo serve la criptovaluta – è la fenice...».
«Quindi satoshi è la cenere da cui la fenice...».
«Sì. E “Ash” («cenere» in inglese, ndr) è anche il nome di uno stupido personaggio dei Pokémon. 11 ragazzo con Pikachu». Wright sorrise. «In Giappone Ash si chiama Satoshi». «Dunque, in sostanza, hai chiamato l’inventore di Bitcoin come l’amichetto di Pikachu?».
«Già. Questo farà incazzare un bel po’ di persone». Era una cosa che diceva spesso, come se far incazzare le persone fosse un’arte. Quelli della generazione di Wright, tra i quarantacinque e i cinquanta, si trovano davanti un mondo in cui le loro fìsse adolescenziali sono diventale realtà. Per Wright, come per Jeff Bezos (fondatore e Geo di Amazon. ndr), i princìpi che regolano il nostro modo di acquistare, di pensare, di vivere sono sorti direttamente dai sogni che facevano da ragazzi, rintanati in un ripostiglio da qualche parte. «La persona che sperimenta la grandezza deve percepire il mito che la circonda», scrisse Frank Herbert in Dune, il romanzo preferito di Wright da ragazzo. «Dune parla innanzitutto dell’uomo», mi disse. «Del fatto che non dovremmo lasciare il mondo alle macchine ma, piuttosto, svilupparci come esseri umani, lo però la vedo in maniera un po’ diversa da Herbert. Per me non si tratta di dover scegliere tra le due cose – l’uomo o le macchine – ma di una simbiosi, un modo per diventare qualcosa di completamente diverso».
È questa sorta di energia cyberpunk – cosa ben diversa dal cypherpunk, una forma di attivismo nata in seguito, con un interesse specifico per la crittografia – che ha garantito un futuro radioso agli informatici in erba della generazione di Wright.