il venerdì, 20 ottobre 2017
Noi Doors siamo la band che tutti amano odiare
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista a Jim Morrison registrata da Howard Smith nel novembre ’69 e raccolta in The Smith T^pes (Edt). Morrison morirà di overdose nel luglio del 1971 a Parigi.
Esibirti ti piace più che fare dischi?
«Si, direi di si. Con tanta gente intorno ce più gusto. Lo studio di registrazione rischia sempre di diventare un po’ arido, monotono. Il bello è dal vivo, decisamente». (...)
Com’è che ultimamente sui Doors leggo soprattutto stroncature?
«Si vede che siamo la band che la gente ama odiare. È stato sempre cosi, siamo l’oggetto del disprezzo universale. Non so, io in un certo senso ci godo». (...)
Alcune critiche riguardano la vostra musica. All’inizio sembrava più rivoluzionaria, poi l’avete addolcita, più una roba da classifica. Ne eravate consapevoli?
«Su questo non sono d’accordo. Anzi, secondo me la nostra musica migliora sempre, diventa più sottile e più sofistica ta, non solo la musica, anche le parole. E poi, se uno continua con le stesse cose, sempre quelle, alla fine stuf a, no? Davvero c’è chi ha voglia di sentirsi cantare la rivoluzione ventiquattrore al giorno?».
Parliamo di soldi. I Doors ne hanno fatti abbastanza?
«Oh, si, adesso posso andare in qualun que ristorante di New York e ordinare quello che mi pare, e se poi voglio andare al cinema non sono più costretto a cercare le sale da cinquanta centesimi».
No, sul serio, se tu smettessi ora... Hai guadagnato abbastanza per poter smettere?
«Fammi pensare... No, sono troppo avido, più ne ho più sono contento. La mia ambizione è di avere un gran mucchio di lingotti d’oro. Proprio dei bei mattoni d’oro, vedermi questi pezzi d’oro pesanti in giro per tutta la casa...».
Parlo con molte band e in tanti mi dicono che fanno una gran fatica a mettere da parte qualcosa.
«Beh, è colpa loro. Avranno le mani bucate, è come dare il whisky agli indiani».
Ho capito, non ti va di parlare di soldi.
«Ma sì, dai. Che cos’è che vuoi sapere?».
Tu, soldi da parte ne hai messi?
«Mettiamola così: con il nostro sistema economico così com’è, e il sistema fiscale e tutto, non credo che sia proprio possibile, dico mai, andare in pensione e non lavorare più. Perché l’economia si espande sempre, se resti tagliato fuori dall’economia perdi il passo e tempo due anni sei col sedere per terra. Non mi sembra possibile potersi ritirare, in una società capitalistica. Però, Howard, davvero, mi piace molto parlare di soldi».
Vedo!
«Va beh, che cosa vuoi che ti dica? Faccio venire il mio commercialista, guardiamo il mio estratto conto».!...)
Che intervista bizzarra sta venendo fuori.
«Hai altre domande stimolanti per me?»
Quando ti guardo nei tuoi spettacoli provo la stessa impressione che sto provando adesso, sento una specie di disprezzo da parte tua verso il pubblico, lo stesso disprezzo che ora, mi pare, stai riservando a me. Dimmi che cosa pensi, non ti sto facendo delle domande abbastanza intelligenti?
«Ma dai! Guarda, questa probabilmente è una delle interviste più interessanti che mi sia mai capitato di fare. Ih hai la fortuna di vederti elargita senza risparmio la mia insigne arguzia irlandese, e la chiami disprezzo, la chiami... Senti, vuoi fare a braccio di ferro? No, che cosa vuoi? Su, dai, chiedimi qualcos’altro, vedrai che non sarò sprezzante. Scusami se sono stato sprezzante».
Andate sempre tutti d’accordo?
«È come essere sposati o come in una famiglia. Si fa sempre... un po’ di fatica. A vivere con qualcuno si litiga molto. Però ho notato che abbiamo avuto un periodo in cui veramente ci davamo sui nervi. Ora, negli ultimi mesi le cose sono parecchio migliorate. Credo che quando stai creando come devi, quando la musica va come deve, allora si è tutti contenti. È solo quando la creatività è un po’ spenta che si comincia a essere nervosi. Oggi, comunque, siamo in ottimi rapporti».
Prevedi che i Doors dureranno molto?
«Davvero, non ne ho idea. Prevedo ragionevolmente almeno altri sette o otto anni, ma più di cosi, non so». (...)
Non è facile avere ima risposta diretta da te. Che domande ti aspettavi?
«È divertente... Ho fatto caso che è quando scherzano che le persone sono più serie. Quando invece fanno le persone serie, allora sì che si ride. Per la verità, io credo che tutto quello che dici significhi esattamente quello che dici e il suo contrario... Hai fame?».
Perché me lo chiedi?
«Perché magari possiamo far venire dei sandwich, Chicken Delight,non so. È ora di pranzo. Hai fatto colazione stamattina?»
Sì.
«Che cos’hai mangiato?»
Un dolce al cioccolato con il tè.
«E basta?»
Non mi andava altro.
«Howard, mangi poco».
Tu hai messo su un bel po’ di chili. Stai mangiando tanto?
«Ecco, questa è una cosa che veramente mi scoccia. Cosa c’è di male a essere grasso?».
Non ho detto che ci sia qualcosa di male...
«Perché essere grasso dev’essere un tale stigma? Grasso, io non ci vedo niente di male. Mi ricordo, c’ò stato un periodo che pesavo più di ottanta chili. Andavo all’università e avevo i buoni per la mensa; la roba della mensa è quasi tutta a base di amido. Costa poco, no? Cosi, se saltavo un pasto, mi sembrava che mi stessero fregando, hai capito? Allora mi alzavo ogni mattina alle sei e mezzo solo per fare colazione: uova, pappa d’avena, salsicce, pane e latte. Poi andavo a lezione e tornavo in mensa per pranzo, che era purè dove ogni tanto finiva dentro un pezzetto di carne. Altre lezioni, poi cena e altro purè. Insomma, tempo tre mesi avevo superato gli ottanta chili. E sai cosa? Stavo benissimo. Mi pareva di essere un carro armato, un grande mammifero, un bestione. Quando passavo nei corridoi o attraversavo il prato mi sembrava che avrei potuto abbattere chiunque sulla mia strada. Ero solido, ecco cosa.Terribile, invece, essere magro come un fuscello, che basta un po’ di vento forte a portarti via. Grasso è bello».
Ancora agli inizi dei Doors sembravi il fotomodello dell’anno, non c’era una rivista che non avesse in copertina una tua foto con l’aria fatale.
«Sensuale, anche. Sordida. Cosa vuoi che ti dica, andavo di moda (...). Dai Howard, ora vai con le domande difficili».
Come sono nati i Doors? Eri ancora al college?
«No, è stato alla fine del college. Mi ero iscritto alla facoltà di cinema perché volevo fare cinema, anche se è difficilissimo riuscire a entrare in quel settore, lo sai. Per cui, cosi, stavo lì senza molto scopo. Vivevo in spiaggia, in abietta povertà, e a un certo momento, senza una ragione al mondo, mi sono messo a scrivere canzoni; me le sentivo spuntare in testa. Ho conosciuto Ray [Manzarek], che studiava cinema anche lui e che aveva cominciato a suonare in giro già da ragazzo, a Chicago. Gli ho fatto sentire qualche canzone e lui ha detto: “Ehi, facciamo una band”. E infatti».
E com’è andata a finire che il cantante lo hai fatto tu?
«Perché, credo, si suppone che le canzoni le canti quello che le ha scritte, perché dev’essere quello che le sente più di tutti gli altri. Dunque, visto che le canzoni le scrivevo quasi tutte io, un po’ alla volta sono diventato il cantante».
In molte città non vogliono più sentir parlare di concerti dei Doors (...) ti piacerebbe, ogni tanto, che non fosse così?
«Potrei scrivere una canzone folk americana, una che possa piacere un po’ a tutti. Tutti direbbero: “Oh, che ragazzo in gamba”. Ci potrei mettere dentro un sacco di aquile americane, di artemisia, legname, massi, fiumi, montagne, praterie», lì consideri autodistruttivo?
«Beh, non nei miei momenti di maggiore sobrietà, no. Ma credo che un certo impulso verso l’autodistruzione ce l’abbiano tutti. Un po’ come la prima scopata».
Non vedo il nesso.
«Non te la ricordi? Ne avevi sentito parlare tanto, non parlavano mai d’altro tutti quanti. Hai questa smania di provare, di vedere che cos’è, alla fine, no? Credo che, chi più chi meno, ce l’abbiamo dentro tutti».
Traduzione di Marco Bettoli