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 2017  ottobre 20 Venerdì calendario

Mr. Smith che prese in tempo l’underground

Era la febbrile epoca del fare e del creare. In queste pagine si sente, si percepisce. Certe interviste grondano della concezione di creatività, presa maledettamente sul serio. E di trasgressione, intesa come l’unica via per affrancarsi da questo mondo pieno di regole, magari buone per arricchire, ma solo se stai al gioco. Avrete capito: siamo in un passato piuttosto profondo. Per la precisione a cavallo dello snodo decisivo che congiunge gli anni Sessanta e i Settanta. E parliamo di un libro che raccoglie tante voci significative di quell’attimo fuggente, colte nella loro spontanea naturalezza in una serie di interviste a dir poco confidenziali, visto il tono d’estrema complicità di cui l’autore ha fatto il suo marchio di fabbrica.
Lui è Howard Smith, scomparso nel 2014 a 77 anni, dopo essere stato tra i protagonisti di quella scena americana dell’underground, occupandosi di giornalismo alternativo, di documentaristica e soprattutto molto di radio. Smith era cresciuto a Brooklyn in una famiglia che campava grazie a un negozio di sigari. Presto però ascolta il richiamo di Manhattan e dei turbolenti movimenti culturali che si stanno agitando giusto dall’altra parte del ponte. Lo attraversa e in breve si trasforma in un cronista da strada, al servizio di testate di ogni genere, da Playboy al NY Times, soprattutto ricavandosi una nicchia fissa al Village Voice, che in quegli anni era l’organo ufficiale della controcultura sulla costa orientale. La sua rubrica si chiama Scenes e registra settimanalmente le nuove cose “da non perdere“che stanno succedendo nella parte “giusta“della città: concerti, teatro off, happening, mostre, party.
Ben presto vedersi dedicare qualche riga da Smith in Scenes, è un must per musicisti emergenti, provocatori della poesia, innovatori del teatro, guerriglieri del cinema, artisti della rivoluzione. E Smith viene promosso catalizzatore di quella stessa scena: del resto il look da rockstar ce l’ha, con due baffi da far impai – lidire Frank Zappa, i suoi articoli grondano di citazioni beat e i suoi programmi radiofonici sono supercool.con la trasposizione in Fm del new joumalism partecipativo inventato daTom Wolfe. Specialità della casa: le interviste. Condotte da Smith con stile complice, confidenziale, senza salamelecchi, punteggiate da brani di nuovissimo art-rock. Nel giro di pochi anni il mestiere di intervistatore diviene il suo core business: scrivere lo deprime, chiacchierare con le celebrità è più facile e lo show che inizialmente produce per la stazione radiofonica newyorkese Wabc/Wplj, presto viene rilanciato da una miriade di altre emittenti su tutto il territorio nazionale.
A consacrare la sua popolarità ci pensa il leggendario Festival di Woodstock, nell’agosto del ’69: Smith per cinque giorni trasmette dal vivo la sua stravagante cronaca dell’evento, raccontando con la sola forza delle parole e del suo microfono cosa diavolo stia accadendo in quel prato dell’Upper State New York, dove la cultura giovanile cambia faccia e si trasforma nel fenomeno culturale più importante del momento.
Da quel momento in poi le star delle nuove arti fanno la fila per farsi intervistare da Smith, per duettare con lui su quei toni di rilassata dissacrazione che, riascoltati oggi, suonano al tempo stesso ingenui ed eccitanti. Arrivano John e Yoko, Lou Reed, Jim Morrison, Eric Clapton, i leader della cultura alternativa Jerry Rubin e Abbie Hoffman, arrivano i ragazzi perduti della California come Jerry Garcia e Janis Joplin, i protagonisti della brit invasion Mick Jagger e Pete Townshend, gli intellettuali del movimento Andy Warhol e Norman Mailer e la gente dell’altro cinema, come Jack Nicholson e Dennis Hopper. Si fa partire il registratore e Howard comincia la più casuale delle conversazioni, sul come vanno le cose, sui gossip attorno all’ultimo lavoro dell’artista, fino a esplorare gli argomenti importanti, l’America e il suo maledetto spirito bellicoso, il demone dell’imperialismo, la gioventù che vuole fare a modo suo, perché è la generazione più promettente che si sia mai vista. Si respira l’aria dei tempi, distesa e un po’ poseur, con gli interlocutori che si studiano, si misurano, si atteggiano, e prima o poi provano a dire qualcosa che valga la pena d’essere ricordato.
Esaurita la vena, chiuso il programma, Smith per decenni conserverà quelle pile di scatole coi nastri delle interviste nel suo loft, con la vaga idea di fame qualcosa. Ma bisogna arrivare al 2012 perché Cass Calder Smith, suo figlio, cominci l’indispensabile lavoro di recupero e di catalogazione di quella miniera d’oro. Ultimata l’opera, a 45 anni dalla loro realizzazione,leinterviste di Howard Smith rivedono la luce, prima in una suggestiva versione audio, racchiuse in un box-set di cd, oppure in versione download (incluse alcune pubblicazioni monografiche, come il cofanetto di 8 cd che raccoglie le cinque interviste fatte da Smith a John Lennon e Yoko Ono). E successivamente con la trascrizione editoriale curata dalla Princeton Architectural Press. Che ora arriva da noi col titolo The SmithTapes. 1969-1972 La controcultura al microfono e la prefazione di Ezra Bookstein (Edt, pp. 480, euro 26), il regista e amico di famiglia che ha editato le interviste: «Nella scelta, il mio obbiettivo è stato lo stesso di Smith: stare sulla notizia. Ora in grandangolo, ora in primissimo piano, queste conversazioni inquadrano un’epoca al tempo stesso pura e impenitente. Sono gli anni dal 1969 al 1972. E parlano da soli».
La lettura va oltre le aspettative, perché ha la forza di riportare a galla qualcosa che suona ancora familiare, ma che invece si è fatalmente distaccato dai nostri modi di comunicare e dai nostri stili di analisi e di descrizione. C’è spontaneità, dissacrazione, ci sono idee, provoca zioni. slogan e c’è anche molto impegno preso sul serio, percepito come un dovere.
Ci si imbatte in Lou Reed che racconta: «Era il ’64. Noi allora suonavamo Heroin, per strada, sulla Centoventicinquesima, all’angolo con la Settima Avenue. John Cale con la viola e io con la chitarra. La gente ci tirava le monetine».
O in George Harrison che, all’indomani dello scioglimento dei Beatles, concede una recensione istantanea del primo album solista dell’ex-compare Paul McCartney: «Penso che That Would Be Something e Maybe l’m Arnazed siano grandi canzoni. Il resto non è malaccio. Insomma, è buono, ma sono rimasto un po’ deluso. Non so... Forse ho torto io. Ed è meglio non avere troppe aspettative: così ogni cosa sembrerà migliore». 0 Andy Warhol, che risponde «No» a Smith che gli domanda: «Arte ne fai ancora?». «Ma hai intenzione di riprendere?» lo incalza Smith. «No. Adesso cerchiamo di fare cinema e tv. Ci siamo dedicati a un programma.Nothing Special, una cosa che dovrebbe cominciare all’una del mattino e andare avanti fino alle sette. Ma ancora non ci hanno fatto sapere niente» (il programma si farà, sebbene in versione meno ambiziosa).
Sono una moltitudine di imperdibili, febbrili istantanee che riemergono da un passato archiviato. Allora non c’era la Rete, dove tutto rimane appeso in eterno. C’erano solo carta, tela o pellicola. E allora diventa preziosa una capsula del tempo come questa. Che ci riconduce tra i labirinti di un pensiero ormai perduto.