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 2017  ottobre 20 Venerdì calendario

Che stoffa quelle biciclette


dal nostro inviato

Maurizio Crosetti
 
CAMBIAGO (Milano). Questa è la storia di Faliero eTolmino, Ernesto e Licinio, Ugo e Cino e dei loro grembiali, delle loro chiavi a brugola, delle loro mani e del loro amore. È la storia dei loro occhi pignoli, delle loro dita puntigliose. È una storia di millimetri e passione, di notti bianche sul bancone, un altare, dove religiosamente viene montata la bicicletta da corsa. La perizia di questi artigiani ha fatto delle bici italiane un capolavoro da museo, un prodotto irraggiungibile e unico al mondo anche se il futuro corre e scatta, prende le scorciatoie e qualche volta gioca sporco. «Adesso i telai che arrivano da Taiwan, dalla Cina o da chél che le. hanno le stesse taglie fisse delle camicie: M, S, L. Da noi ci sono quindici persone che li preparano uno a uno, ancora su misura, ma costa troppo e non lo fa quasi più nessuno». Ernesto, nel senso di Colnago (avete presente Leonardo da Vinci? Ecco, lui perla storia della bicicletta è più o meno un tipo così) con i suoi 85 anni apre ancora bottega a Cambiago tutte le mattine alle sette e mezza, e si prende un caffè con i ragazzi che imparano da lui. «È la mia vita. Mi sento stanco solo il sabato e la domenica, quando non c’è niente da fare». 
Questa è la storia di un lavoro da orologiai, da micromeccanici, da stilisti. Non per niente si intitola I sarti italiani della bicicletta un libro curioso e mirabile, scritto da Paolo Amadori e Paolo Tuliini per Ediciclo (pp. 192, euro 32), e il sottotitolo spiega meglio: Le bici e i telaisti del dopo Fausto Coppi. Il quale mori in quel modo assurdo il 2 gennaio 1960, ultimo dei tre grandi (Coppi, Bartali, Magni) a lasciare non questo mondo ma la strada, aprendo con la sua fine una nuova epoca. Eddy Merckx il Cannibale vincerà la sua prima Sanremo appena sei anni più tardi. E le biciclette saranno un prodotto di sartoria per almeno altri vent’anni, prima dell’elettronica e della globalizzazione che le ha rese, ancora e sempre, meravigliose macchine però industriali. L’Italia resta il più importante produttore al mondo, con oltre due milioni di pezzi l’anno e un fatturato che supera il miliardo di euro.
Il signor Ernesto è Leonardo perché ha inventato un sacco di cose. Una epocale, il telaio di carbonio, altre storiche, tipo la forcella dritta e la catena forata. «Poi mi hanno copiato tutti, dandomi però del matto. Alla vigilia della prima Roubaix vinta da un telaio al carbonio dal povero Franco Ballerini, il patron Squinzi mi telefonò dicendomi che girava voce che le nostre biciclette si sarebbero spezzate tutte sul pavé. Gli giurai che no, i test avevano dimostrato che stava cominciando una nuova era, però non chiusi occhio tutta la notte. Ma quando il pomeriggio dopo vidi uscire dalla foresta di Arenberg tre corridori Mapei con la bici al carbonio, capii che avevamo avuto ragione. Poi Ballerini andò via da solo, e niente sarebbe più stato come prima».
Un grande narratore di ciclismo e uomini come Mario Fossati scriveva che il telaio della bici è come una gruccia dove il ciclista appende l’anima. E il libro di Ediciclo ne narra l’epopea. Scorrono nomi di biciclette famose come la Bianchi di Coppi e Gimondi, colorata con quell’inconfondibile celeste quasi verde chiaro, oppure la Legnano e la Maino, ma anche marchi da memoriosi feticisti e suiveur come Gloria, Frejus, Ganna, Viscontes, Dei, Benotto, Cimatti, Velter. Gli eroi eponimi sono i leggendari telaisti Luigi Valsassina e Luigi Gilardi, che preparò la bici per il record dell’ora di Fausto Coppi in mezzo alle bombe che piovevano su Milano. Oppure la storica squadra che negli anni si avvicendò accanto a Merckx, assoluto fanatico della meccanica e della posizione in sella: Faliero Masi nel ’68, Giuseppe Pelò l’anno dopo, il nostro Ernesto Colgano fino al 73, Ugo De Rosa nel ’74. Ognuno di loro sapeva che il Cannibale scattava con maggiore potenza con la gamba sinistra rispetto alla destra, dunque bisognava tenerne conto nell’equilibrio di elasticità e resistenza della gruccia. La bici che Colnago consegnò a Merckx per il record dell’ora messicano del 1972 pesava l’inezia di cinque chili e mezzo eppure il belga, dopo esserne disceso vincitore e stravolto,giurò: «Mai più».
Questa è una storia di passione e precisione, materiali d’eccellenza e uomini ancora di più, un’avventura di magistero e segreti. Ogni telaista andava a bottega per imparare il mestiere: nel 1944, i genitori del dodicenne Ernesto Colnago pagavano due chili di farina a settimana al signor Dante Fumagalli che aveva preso il ragazzo come garzone, e la fari na a quel tempo va leva oro. Gli autori del libro hanno redatto le schede delle biciclette fuoriserie usate dai campioni. I colori dei telai sono ancora brillanti come gioielli, davvero il tempo non ha reso opachi smalti e cromature. Lo sguardo dell’esperto noterà le finiture galvanotecniche dei telai, prima nichelati e poi smaltati, il “nodo sella col taglio a salame“, le pipe cromate e le teste di forcella, ma anche a chi non sa niente di bici non sfuggiranno la bellezza e l’incanto.
I telai, cioè i vestiti. Ma anche gli altri componenti della bicicletta, gli accessori: manubrio, sella, pedali, pedivelle, cambio, deragliatore, catena, leve e ingranaggi, tubolari e puntapiedi, raggi e cerchi, un universo che ha lungamente parlato italiano. Si pensi a 1X11140 Campagnolo, un nome fra tutti, alla storica azienda vicentina e ai suoi 135 brevetti, compresa l’invenzione del cambio che viene appena dopo quella della ruota, stranamente non immaginata per prima da Campagnolo (ma non è mica detto). E bisogna pensare a tutto il lavoro che l’industria delle bici ha messo in movimento, a tutte le famiglie che ha sfamato, a tutti i ciclisti che ha sistemato in sella contenti.
«Siamo una vera eccellenza italiana nel mondo» racconta Ernesto Colnago che i forzati del pedale li ha vestiti quasi tutti, marchiandoli con il suo celebre asso di cuori e vincendo 61 titoli mondiali. «Mi ricordo quando aiutavamo i corridori dell’est europeo che non potevano passare al professionismo per ragioni politiche, ma erano i padroni di tutte le Olimpiadi e di tutte le maglie iridate in strada e su pista. La mia è stata una vita bella, anche se adesso soffro per la perdita di mia moglie dopo sessant’anni insieme. Cerco di reagire lavorando, come ho sempre fatto, come quando ero sull’ammiraglia della “Nivea“di Fiorenzo Magni,ocome il giorno in cui Dancelli vinse finalmente la Sanremo dopo 17 edizioni andate agli stranieri. Nel mio mestiere ho cercato di dare continuità alla serietà e ho cercato vie nuove. Andai da Enzo Ferrari, che parlava benissimo il milanese perché aveva lavorato per 25 anni con l’Alfa Romeo, e gli chiesi un aiuto per il carbonio: ci capimmo al volo. Poi, certo, un po’ di tristezza arriva, non solo perché ormai sono vecchio ma perché in questo lavoro così bello siamo rimasti proprio in pochi».
Tra il 1940 e il 1950, la mitica Bianchi produceva 80 mila biciclette all’anno. Tutta l’Italia pedalava e usciva così dalla guerra, spinta da Coppi e Bartali ma anche dai pesantissimi arnesi che tracciavano i sentieri di campagna, oppure passavano all’ombra dei campanili nei più remoti borghi. Quel tempo di povertà, slancio e dolore, ma anche di voglia di tornare a vivere, ha davvero cambiato il Paese e l’ha come modellato verso l’avvenire. Che non è soltanto questa piccola cosa che a volte, un po’ smarriti, ci sembra di tenere in mano, esile e leggero come un telaio di bicicletta.