National Geografic, 3 ottobre 2017
Storia di Jane
«Mi dispiace per chi ha già sentito la mia storia», ha esordito Jane Goodall a una conferenza nel 2015. «Ma a volte è bello ascoltare due volte lo stesso racconto». Sono molti gli articoli, i libri e le immagini che l’hanno fatta conoscere in tutto il mondo: la giovane donna inglese che studiava gli scimpanzé in Africa e ha finito con il rivoluzionare la primatologia. Come ha fatto una donna appassionata di animali ma priva di una formazione specifica a farsi strada nel mondo della scienza e della comunicazione dominato dagli uomini e a compiere importanti scoperte fino a diventare il simbolo del movimento conservazionista? Ecco com’è andata.
Jane salì alla ribalta nel 1965 grazie a un documentario, Miss Goodall and the Wild Chimpanzees, prodotto dalla National Geographic Society. Jane non lo vedeva da anni, ma oggi lo riguardiamo insieme su un computer nella casa di West London di un’amica. La primatologa, che quest’anno ha compiuto 83 anni, osserva se stessa ventottenne.
«Sarebbe divertente avere di nuovo quell’età», commenta con un sorriso. La giovane Jane dello schermo cammina nella foresta della Gombe Stream Game Reserve, nell’attuale Tanzania. Indossa scarponi di tela alti fino alla caviglia e pantaloncini color cachi, i capelli biondi raccolti nella coda di cavallo che è diventata il suo segno distintivo. È impegnata nella sua ricerca sul campo, anche se in realtà, mi spiega, in quelle immagini stava rimettendo in scena alcuni momenti chiave dei suoi primi sei mesi a Gombe affinché Hugo van Lawick potesse riprenderla. In effetti, in quel primo periodo di solitudine e scoperte le cineprese non erano lì a testimoniare tutto. Dopo sarebbero state una presenza costante della sua vita.
I dirigenti di National Geographic avevano dato a Hugo indicazioni precise sulle inquadrature. «Avevamo una lista: Jane sulla barca, Jane con il binocolo, Jane che studia una mappa», ricorda Jane. Quando il 22 dicembre 1965 la CBS trasmise Miss Goodall and thè Wild Chimpanzees, il documentario fu seguito da 25 milioni di nordamericani, un’audience altissima, allora come adesso.
Il film la rese famosa in tutto il mondo e segnò l’inizio di una leggendaria carriera come primatologa. Per la National Geographic Society Jane era la persona giusta su cui puntare: una donna bianca attraente, telegenica e comunicativa, che conduceva ricerche nella foresta selvaggia africana. E per di più in un’epoca in cui le donne non venivano di certo incoraggiate a seguire la carriera scientifica.
Da allora Jane ha completato un dottorato alla Cambridge University, ha scritto decine di libri, ha formato generazioni di scienziati, ha promosso il conservazionismo nei paesi in via di sviluppo e ha contribuito alla creazione di diverse aree protette per gli scimpanzé. Il programma Roots & Shoots del Jane Goodall Institute, attivo in quasi cento paesi, addestra i giovani a impegnarsi nella salvaguardia dell’ambiente. E per circa 300 giorn i l’anno Jane viaggia ancora per il mondo per sensibilizzare politici, visitare scuole, tenere conferenze.
Jane è stata protagonista di oltre 40 documentari e ha partecipato a moltissimi programmi televisivi. La National Geographic Documentary Film ne ha appena prodotto uno nuovo, della durata di 120 minuti. Intitolato semplicemente JANE, include immagini inedite e offre un suggestivo ritratto della donna che è diventata famosa per aver dedicato la vita agli scimpanzé.
Quando Hugo andò per la prima volta a Gombe nel 1962 per documentare le scoperte di Jane, scattò migliaia di fotografie e girò più di 65 ore di riprese con la sua cinepresa 16 mm, Parte di questo materiale fu usata per il documentario del 1965 e per articoli pubblicati su National Geographic. I rulli contenenti le sequenze tagliate in fase di montaggio furono conservati dentro varie scatole e dimenticati. Nel 2015 sono stati ritrovati in un deposito sotterraneo in Pennsylvania. Le preziose immagini ci restituiscono una Jane che non conoscevamo. Ogni tanto, soprattutto dopo aver girato una scena, Jane smette i panni della scienziata seria e guarda dritto nell’obiettivo rivolta a Hugo, il suo regista. In questi rari momenti cogliamo i segnali del sentimento che la legava all’uomo che stava dietro la cinepresa.
Nel suo insieme questo tesoro ritrovato ci fornisce un ritratto intimo di Jane in un periodo cruciale della sua vita: quello in cui da giovane donna, che conosceva l’Africa solo per Tarzan e i romanzi sul dottor Dolittle, è riuscita a vivere le esperienze che aveva sognato e da scienziata alle prime armi ha compiuto scoperte destinate a cambiare per sempre la nostra conoscenza dei parenti più prossimi dell’uomo.
A Gombe Jane ha resistito alle peggiori insidie della natura: malaria, parassiti, serpenti, tempeste. Ma anche confrontandosi con il mondo al di fuori di Gombe ha saputo mettere in campo abili strategie e dare prova di grande diplomazia. All’inizio della sua carriera Jane ha dovuto superare lo scetticismo dell’establishment scientifico, composto in maggioranza da uomini, che non prendeva sul serio il suo lavoro; ha lottato con coloro che la finanziavano ma solo a condizione che seguisse il loro copione e accettasse di “spettacolarizzare” il proprio lavoro, e ha combattuto con gli uomini che si presentavano come compagni o sostenitori ma volevano comunque esercitare un controllo e cercavano di imporle compromessi e rapporti che non le andavano bene.
In tutte queste situazioni Jane ha adottato la medesima tattica: era disposta a sopportare le offese, soddisfare le richieste, tollerare gli idioti e fare sacrifici pur di portare avanti i propri studi.
Nata in Inghilterra, Valerie Jane Morris-Goodall manifestò sin da bambina un profondo amore per gli animali e un forte desiderio di lavorare con loro in Africa. La sua famiglia non aveva le risorse per mandarla all’università, così Jane si iscrisse a una scuola professionale per diventare segretaria. Lavorò a Oxford e poi per una casa di produzione di documentari a Londra. Nell’estate del 1956 tornò a casa e lavorò come cameriera in un locale per pagarsi il biglietto di una nave per il Kenya.
Giunta a Nairobi ebbe il coraggio di chiedere un appuntamento al paleontologo Louis S.B. Leakey, che dopo le pionieristiche ricerche sulle origini dell’uomo aveva cominciato a interessarsi alle grandi scimmie. Leakey la assunse subito come segretaria e, riconoscendo in lei le qualità di una scienziata, fece in modo che studiasse i primati e cercò i fondi per farle fare ricerche sul campo in Tanzania.
E qualche mese dopo il loro primo incontro le confessò di essere innamorato di lei.
Jane scrisse a un’amica di essere “sconvolta” dalla dichiarazione di Leakey, che aveva trent’anni più di lei ed era già sposato.
Intervistata anni dopo da Virginia Morell, autrice di un libro sulla famiglia Leakey, Jane dichiarò: “Ciò di cui avevo più paura erano le possibili conseguenze del mio ri fiuto sui miei studi sugli scimpanzé”. Leakey, tuttavia, non le fece mai mancare il suo sostegno, tanto che nell’estate del i960 Jane si ritrovò ad allestire un accampamento all’interno della Gombe Stream Reserve, vicino alle rive del lago Tanganica, con fondi sufficienti per sei mesi di lavoro sul campo.
Sin dall’inizio Jane condusse le sue ricerche affidandosi all’istinto. Non conoscendo la prassi scientifica in uso all’epoca di identificare i singoli animali con un numero, diede un nomignolo agli scimpanzé oggetto delle sue osservazioni – Fifi, Fio, Mr. McGregor, David Greybeard – descrivendone i comportamenti, le caratteristiche fisiche e le diverse personalità.
La studiosa trascorreva la maggior parte del giorno a localizzare gli animali con il suo binocolo per poi tentare di avvicinarsi gradualmente in modo che si abituassero alla presenza di quella donna che rimaneva seduta a prendere appunti.
Nell’ultimo dei sei mesi, Jane fece tre scoperte che non solo avrebbero reso orgoglioso il suo mentore, ma avrebbero smentito convinzioni scientifiche ritenute fino a quel momento assodate.
La prima importante osservazione fu quella dello scimpanzé che rosicchiava qualcosa accanto alla carcassa di un piccolo animale, il che smentiva la teoria che i primati non mangiassero carne. Lo scimpanzé in questione si distingueva per un pizzetto grigio sul mento, così Jane lo soprannominò David Greybeard (David Barbagrigia). E fu proprio Greybeard a fornirle le chiavi per accedere al mondo misterioso degli scimpanzé di Gombe.
Dopo una quindicina di giorni Jane lo avvistò di nuovo e anche stavolta assistette a qualcosa di impensabile fino a quel momento. Accovacciato accanto a un termitaio, Greybeard prese un filo d’erba, lo infilò in una delle gallerie che lo componevano per poi tirarlo fuori pieno di termiti che si affrettò a mangiare golosamente. In un’altra occasione Jane lo vide raccogliere un rametto, pulirlo delle foglie e usarlo come bastoncino per prendere le termiti. David Greybeard era la dimostrazione che gli scimpanzé erano in grado non solo di adoperare utensili ma addirittura di fabbricarli, due abilità fino ad allora considerate appannaggio esclusivo degli uomini.
Quando Jane telegrafò la notizia a Louis Leakey, il paleontologo le rispose:
ADESSO NECESSARIO RIDEFINIRE
UTENSILE STOP RIDEFINIRE UOMO STOP
O ACCETTARE SCIMPANZÉ COME UMANI.
In virtù di queste scoperte la National Geographic Society assegnò a Jane un finanziamento per continuare il suo lavoro a Gombe.
Le prime pubblicazioni di Jane relative alle sue ricerche sul campo incontrarono lo scetticismo della comunità scientifica. In fondo quella donna non aveva una formazione specifica, non aveva nessun diploma.
Nella primavera del 1962 Jane presentò una relazione a un simposio sui primati della Zoological Society of London, impressionando molti dei presenti, tra cui lo zoologo Desmond Morris. Ma non mancarono le critiche denigratorie. Un comunicato della Associated Press cominciava con queste parole: “Una biondina slanciata che dedica più tempo alle scimmie che agli uomini oggi ha raccontato di aver vissuto 15 mesi nella giungla per studiare le abitudini dei primati”.
Una documentazione fotografica delle scoperte di Jane le avrebbe rese inconfutabili. Ma Jane aveva rifiutato l’offerta di National Geographic di farsi accompagnare da un fotografo, spiegando che la presenza di un estraneo poteva disturbare il rapporto di fiducia che stava costruendo con gli scimpanzé.
National Geographic le spedì una macchina fotografica e diversi rullini di pellicola con istruzioni dettagliate sul modo di usarli. Jane ce la mise tutta, ma le foto che mandò non erano all’altezza degli standard della rivista. Ancora una volta la redazione insistette per mandare in Africa un suo fotografo e di nuovo Jane respinse l’offerta. Sua sorella minore, Judy, aveva esperienza di fotografia e le somigliava abbastanza da non insospettire gli scimpanzé con la sua presenza, ma i redattori di National Geographic trovarono insoddisfacenti anche le sue fotografie.
La rivista comunicò a Jane che avrebbe volentieri pubblicato un suo articolo sulle sue ricerche ma non senza “delle buone immagini degli animali”. Jane si rese conto che senza quelle pubblicazioni l’intero finanziamento da parte della Society era a rischio.
Leakey, che aveva aiutato Jane a iscriversi a un dottorato di ricerca alla Cambridge University – Goodall è tra i pochi studenti senza laurea che l’ateneo abbia mai ammesso –, chiese alla National Geographic Society di finanziarla mentre scriveva la sua tesi. Quando la Society rifiutò sostenendo che “la signora... non è qualificata, nel senso che non ha una laurea di nessuna università”, Leakey infuriato spedì loro un elenco dei suoi risultati. Alla fine la Society assegnò un finanziamento a Jane ma a condizione che accettasse di essere accompagnata da un fotografo professionista. Su proposta di Leakey, National Geographic affidò l’incarico a Hugo van Lawick.
Quando l’ho intervistata, nel 2015, Jane ha ribadito che «Louis ha scelto Hugo pensando anche a un eventuale incontro sul piano sentimentale oltre che professionale. Non c’è dubbio. E poi lo ha anche ammesso». In fin dei conti, Jane ne è convinta, Leakey nutriva per lei un amore disinteressato.
Hugo arrivò a Gombe nell’agosto del 1962. Fumava molto, un’abitudine che Jane detestava, ma per il resto i due si trovarono bene; avevano entrambi una grande passione per la natura ed erano molto dediti al loro lavoro. Jane scrisse a un’amica: “Siamo una famiglia felice. Hugo è affascinante e andiamo molto d’accordo”.
Impegnati a documentare il comportamento degli scimpanzé, i due non ritenevano fosse importante includere anche Jane nelle riprese. Ma i dirigenti di National Geographic erano sempre più interessati ad avere immagini della giovane studiosa. “So che non dimenticherai di scattare qual che foto della vita quotidiana nel vostro accampamento: Jane che cucina, scrive la sera alla luce delle lampade, fa il bagno, si lava i capelli, cose del genere”, scrisse a Hugo Robert Gilka, assistente photo editor, nell’autunno del 1962. Delle buone foto di Jane che si lavava i capelli in un torrente, insisteva Gilka, “sarebbero molto utili”.
Nella casa di Londra in cui io e Jane guardiamo sul computer le immagini di Miss Goodall and the Wild Chimpanzees arriva la scena in cui lei si lava i capelli. Ancora oggi la cosa la mette a disagio.
«Mi arrabbiai molto per queste riprese», dice.
Le chiedo il perché.
«Non vedo alcuna ragione per cui la gente debba vedere me che mi lavo i capelli. Non lo trovo interessante».
La redazione di National Geographic fu contenta del lavoro di Hugo, che soddisfaceva tutte le loro richieste: alle foto che documentavano la capacità degli scimpanzé di fabbricare e adoperare utensili, il modo in cui costruivano i nidi e le gerarchie sociali che regolavano la loro vita, si univano quelle che ritraevano Jane così come richiesto da Gilka.
Le immagini di Hugo furono pubblicate insieme all’articolo di copertina dell’agosto 1963, firmato da Jane e intitolato My LifeAmong Wild Chimpanzees. Il sottotitolo recitava: “Una giovane e coraggiosa scienziata britannica ha vissuto tra le grandi scimmie del lago Tanganica e ha scoperto aspetti del loro comportamento fino a oggi sconosciuti”.
L’articolo ebbe un grande successo; Melville Grosvenor, presidente della National Geographic Society, lo definì «magnifico» e volle concedere una gratifica a Hugo e Jane. Il brano iniziale, che conteneva una breve presentazione di Jane Goodall, rifletteva l’ambiguità dell’immagine pubblica che si stava costruendo intorno alla giovane scienziata. In un paragrafo la si definiva una “zooioga moderna”, in un altro la si descriveva come “un’attraente giovane inglese”.
Mentre a Gombe Jane e Hugo ingrandivano la stazione di ricerca, sviluppando idee per nuovi documentari, National Geographic insisteva per mantenere i riflettori puntati su Jane nei film che si andavano realizzando per la televisione e per il circuito delle conferenze. Le richieste erano sempre più specifiche, come dimostra la lettera inviata a Hugo da Joanne Hess, che lavorava per la divisione conferenze della Society, in cui si legge: “Sarebbe importante e utile che Jane posasse per alcune scene che la ritraggono con il binocolo in mano, mentre sorride agli scimpanzé, li osserva sugli alberi, li scruta da lontano e prende appunti sul suo taccuino, ecc. In sostanza Jane dovrebbe “fingere” di fare queste cose mentre tu la riprendi da circa 60 metri di distanza, in modo che noi possiamo montare queste immagini nel film”.
La pressione sulle pose studiate a tavolino amareggiava Jane che, tuttavia, riuscì a gestire la situazione con diplomazia. In una lettera a Melvin Payne, presidente della commissione che sovrintendeva al suo finanziamento, scrisse: “Capisco bene la necessità di costruire una storia intorno al personaggio ‘Jane GoodalP e le assicuro che abbiamo collaborato quanto più possibile con Joanne”.
Ma quando Hess andò a Gombe per supervisionare alcune riprese Jane si concesse un atto di ribellione. “Stiamo già raccogliendo una grande quantità di ragni e millepiedi dall’aspetto orribile che poi metteremo casualmente nella sua tenda nel tentativo di abbreviare la sua visita”, scrisse Jane alla madre.
Quando l’ho intervistata a Gombe nel 2015, Jane guardava con più filosofia al trattamento da star che le avevano imposto:
GOODALL: C’era questa donna giovane e carina che viveva nella giungla insieme ad animali potenzialmente pericolosi. Alla gente piace fantasticare, e mi aveva trasformato in un’eroina da romanzo. Anche National Geographic aveva contribuito alla costruzione di quel personaggio.
GERBER: Molta gente al tuo posto si sarebbe opposta a quella situazione dicendo: “Guardate che quella non sono io”.
GOODALL: Non potevo fare niente al riguardo, perché in fondo la gente mi conosceva in quel modo. D’altra parte non è che mi si potesse descrivere in una maniera molto diversa. Quel ritratto non era del tutto sbagliato. È solo che alla gente piace prendere i fatti e costruirci sopra una storia romanzata.
GERBER: Ma a un certo punto hai fatto tua questa storia, l’hai persino abbellita.
GOODALL: Be’, a un certo punto mi sono resa conto che se la gente mi vedeva in quel modo mi avrebbe ascoltato con più attenzione, come in effetti è stato. Così avrei potuto fare di più per salvaguardare gli scimpanzé e raggiungere gli altri obiettivi che mi ero prefissa.
Sul finire del 1963 Jane confidò agli amici che lei e Hugo erano «molto innamorati». Durante le vacanze di Natale che trascorse con la famiglia a Bournemouth, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, ricevette un telegramma: “VUOI SPOSARMI STOP HUGO”. Jane rispose di sì e i due fissarono come data del matrimonio il 28 marzo, un mese dopo quello che sarebbe diventato un altro momento cruciale della vita della scienziata, il giorno della sua prima conferenza importante negli Stati Uniti.
Jane era un po’ agitata all’idea di salire sul palco della DAR Constitution Hall di Washington (con 3.700 posti a sedere), ma i membri del comitato conferenze della National Geographic Society sembravano ancora più nervosi di lei. All’approssimarsi del 28 febbraio il comitato le chiese la bozza del suo discorso. Jane non ne aveva scritto uno.
Per assicurarsi che l’evento andasse bene, Joanne Hess e i suoi collaboratori chiesero a Jane di raggiungerli in sala montaggio, in modo da provare il discorso abbinandolo alle immagini. Quando l’ho intervistata a Gombe nel 2015 Jane mi ha raccontato ciò che accadde: «La Society ovviamente voleva farsi un’idea di cosa avrei detto», ha ricordato. «Per me è un po’ difficile fare questo tipo di prove generali; nelle mie conferenze molto dipende dalla risposta del pubblico. Li sentivo bisbigliare: “Forse sarà meglio annullare tutto. Potrebbe essere un disastro! Vogliamo davvero che il nome della Society sia associato a questa ragazza inesperta? A quanto pare non ha idea di cosa dirà”. Io sapevo benissimo di cosa avrei parlato, ma non avevo intenzione di tenere un intero discorso in quella situazione assurda».
Durante la conferenza alla Constitution Hall, Jane parlò delle sue scoperte scientifiche, definendole «risultati che hanno superato le mie più rosee aspettative». Evocò la bellezza e la tranquillità di Gombe e, come avrebbe fatto per tutto il resto della sua carriera, descrisse gli scimpanzé indicandone i tratti della personalità e i nomi che gli aveva dato.
Definì Fifi «agile e acrobatica», Figan, il fratello maggiore di Fifi, come un adolescente che «si sente un po’ superiore».
E per sottolineare la necessità di proteggere gli scimpanzé ed evitare che fossero uccisi o venduti ai circhi, Jane parlò a lungo di David Greybeard, la scimmia fiduciosa grazie a cui era arrivata alle scoperte più importanti.
«David Greybeard si è fidato ciecamente dell’uomo», disse al suo pubblico. «Ora sta a noi fare qualcosa affinché almeno qualcuna di queste creature straordinarie, quasi umane, possa continuare a vivere indisturbata nel suo habitat naturale».
La relazione fu un trionfo e una pietra miliare nella costruzione di quel personaggio pubblico che Jane non aveva voluto ma avrebbe imparato a gestire a proprio vantaggio.
In particolare il suo discorso catturò l’attenzione di un dirigente della National Geographic Society che stava per avviare una divisione espressamente dedicata agli special televisivi. Buona parte delle riprese di Gombe andò a comporre uno dei primi programmi prodotti dalla divisione e trasmessi in prima serata: Miss Goodall and thè Wild Chimpanzees con la voce narrante di una star di Hollywood del calibro di Orson Welles.
Quando Hugo e Jane assistettero alla prima proiezione del documentario finito si lamentarono delle numerose inesattezze. Il racconto di Welles, in particolare, mancava del tutto di scientificità e su insistenza di Jane il testo fu parzialmente riscritto.
Ancora oggi, riguardandolo sul computer, Jane ne sottolinea i difetti. Il leopardo non era stato filmato da Hugo, si trattava di immagini di repertorio; la scena non era stata girata a Gombe ma da qualche parte nel Serengeti. E quando Welles pronuncia la frase «Dopo due mesi di vane ricerche» Jane lo interrompe: «Non è vero che per due mesi non avevo avvistato neppure uno scimpanzé, è assolutamente falso».
A quanto pare le imprecisioni diedero fastidio solo a Jane e a Hugo. Il documentario ottenne un grande successo commerciale. I due speravano di poterne realizzare un altro sul quale avere maggiore controllo creativo, ma i funzionari della National Geographic Society avevano altre idee. Volevano ancora puntare su Jane e Gombe, ma non necessariamente su Hugo. Lei era la star, lui aveva un ruolo secondario.
Negli anni successivi Jane e Hugo presero strade diverse. Nel 1967 ebbero un figlio, Hugo Eric Louis van Lawick, soprannominato Grub, ma mentre Jane continuò a lavorare a Gombe, la passione per le riprese naturalistiche portò Hugo nel Serengeti, a più di 600 chilometri di distanza. I due si allontanarono in tutti i sensi, e nel 1974 divorziarono. Nel 1975 Jane sposò Derek Bryceson, un funzionario tanzaniano. A otto anni Grub viveva con la nonna e andava a scuola a Bournemouth. Dopo appena cinque anni di matrimonio, nel 1980, Derek morì di cancro. Hugo morì di enfisema nel 2002.
Quando ho intervistato Jane a Gombe, erano passati 55 anni dal giorno in cui era approdata per la prima volta su quella spiaggia di ciottoli. Ma ricordava bene com’era il paesaggio allora, dalla spiaggia su fino al crinale che chiamavano the peak, la vetta: «Sembra un’altra vita, è passato così tanto tempo».
Rivede se stessa fingere nelle riprese cinematografiche e ne parla con un sorriso.
In quelle immagini una Jane ventottenne è seduta in cima alla vetta. È l’ora d’oro, rimbrunire. Hugo ha scelto un’esposizione perfetta. Sullo schermo Jane si stringe una coperta intorno alle spalle, poi prende una tazza di latta e sorseggia qualcosa.
Adesso la voce narrante è quella di Jane.
«Quella tazza era vuota, giuro. Non c’era niente dentro».