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 2017  ottobre 25 Mercoledì calendario

Adesso ci vuole la laurea anche per essere gay

«Una mamma anche Alessandro Magno?». 
La battuta di Abatantuono, che in «Mediterraneo» si mostra sbigottito dopo aver appreso dell’omosessualità del grande condottiero macedone, non è riportata a caso. Anche se, in effetti, il nuovo corso di “storia dell’omosessualità” che da quest’anno potrà essere frequentato dagli studenti dell’Università di Torino, prenderà in esame soltanto il periodo che va dal Settecento ai giorni nostri. Proponendo, come riporta il sito dell’ateneo, «una storia culturale dell’omosessualità che ne ricostruisca le trasformazioni tra Europa e Stati Uniti, restituendo esperienze, narrazioni e rappresentazioni». 
Diciotto lezioni fra fine aprile e inizio giugno, all’interno del dipartimento di Studi Umanistici attraverso il Dams (Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo). Sei crediti formativi per chi porta a termine il corso (non obbligatorio), temi che spaziano dall’ «omosessuale ottocentesco» ai primi tentativi di emancipazione, fino all’analisi di come il tema venga trattato oggi dai media. È il primo del genere in Italia. 
Preferirei essere negro piuttosto che gay. Perché se sei negro non lo devi dire a tua madre (Charles Pierce, noto attore gay americano). 
Ora, che la “comunità omosessuale” anzi, la “comunità Lgbtq+”, come la definisce lo stesso ateneo torinese, senza rendersi conto che la paranoia politicamente corretta di non escludere dall’acronimo alcuna tendenza sessuale stia ottenendo effetti francamente comici insomma, che chiunque non si dichiari eterosessuale rivendichi il diritto di poterlo essere senza imbarazzi, e anche desideri sapere come se l’è cavata chi, in passato e in situazioni certo più discriminanti di quella attuale, si sia trovato nella stessa situazione, è del tutto legittimo. Anche interessante. 
D’altronde ancora oggi c’è qualcuno che, sordo e cieco a ogni evidenza scientifica, giudica l’omosessualità alla stregua di una malattia. E però, d’altro canto, il rischio è quello di alimentare un certo distacco da quella che si spera possa diventare un giorno “comunità tutta” anche parlare, come fa l’università stessa, di “comunità Lgbtq+” è comunque un modo di alzare uno steccato, di separare le persone in base alle proprie preferenze sessuali. Non tanto un “fare fronte comune” ma piuttosto una forma di autoghettizzazione, più infantile che orgogliosa, altra faccia certo meno aggressiva e pericolosa dell’insopportabile discriminazione omofoba. 
Parliamoci chiaro: la bisessualità raddoppia immediatamente le tue chances al sabato sera (Woody Allen). 
Perché l’effetto che ne consegue è spesso contrario a ciò che si vorrebbe ottenere. Ci si chiude. Si comincia a intravedere omofobia dappertutto, attribuendola per esempio anche a chi, rispettando l’ovvio diritto di manifestare il proprio “orgoglio gay”, ne prende in giro le baracconate. 
Ci si mostra oltremodo permalosi, fino a diventare a volte antipatici, invocando in nome di un malinteso senso di rispetto della “diversità” codici ed escamotage linguistici che suonano ipocriti e fastidiosi. Non si accetta più nemmeno l’ironia. 
Ho rispetto per gli omosessuali e i negri, purché i due fenomeni non si presentino contemporaneamente (Corrado Guzzanti). 
Ecco, in questo senso si potrà dire che le agognate “parità” e “libertà sessuale” nel senso di percezione sociale non influenzata dalle preferenze intime di ognuno saranno davvero raggiunte quando si potranno fare battute sugli omosessuali come succede per le donne, gli uomini, i carabinieri, i preti: senza che nessuno si offenda né gridi allo scandalo.