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 2017  ottobre 26 Giovedì calendario

Arabia Saudita, la doppia sfida di Salman

Spira un vento insolito dal Golfo. A sospingerlo è l’uomo forte del regno saudita, Mohammad bin Salman. Obiettivo: un duplice contenimento. Quello del wahhabismo più oltranzista, la corrente religiosa dominante nel Regno, e quello dell’Iran, l’odiata potenza sciita.
Da Riad giungono segnali precisi in questa direzione. A partire dal tentativo di ridimensionare l’influenza degli ulema sino alla concessione del permesso di guidare alle donne, per finire con l’istituzione del centro “Re Salman“con sede a Medina, che punta a riunire studiosi di ogni parte della Mezzaluna che avranno come compito quello di confutare quelle interpretazioni estremistiche della religione che hanno favorito la crescita dei movimenti jihadisti. Il coinvolgimento di religiosi non sauditi più aperti al mutamento dottrinale rende meno rilevante il peso dei rigidi dotti locali. Obiettivo ribadito ufficialmente dallo stesso Mohammad bin Salman quando annuncia che l’Arabia Saudita tornerà a un Islam “moderato” e sradicherà l’estremismo religioso.
Una scelta, quella del depotenziamento dell’ambiente wahhabita più estremo, che consente di limitarne l’influenza anche su altri terreni: la monarchia trae, infatti, legittimazione politica, anche nelle sue scelte meno ortodosse, dallo storico consenso degli ulema. Se questo rapporto si incrina, la stabilità della dinastia ne risente. Da qui il costante imperativo sistemico dei Saud: evitare disallineamenti con quel ceto sapienziale che nell’Islam sunnita, notoriamente senza clero, custodisce la tradizione wahhabita.
Il ridimensionamento degli intransigenti e la, relativa, apertura al mutamento dottrinale consentono ai Saud di continuare anche la battaglia contro i Fratelli Musulmani, concorrenti nella galassia salafita ma acerrimi nemici politici. E con il loro protettore, il Qatar, ormai accerchiato nel Golfo su pressione del più potente vicino saudita.
Una scelta, quella di Riad, che risponde alla necessità di mantenere, sotto nuove forme, il controllo del campo religioso sunnita, oltre che di rinforzare le nuove alleanze regionali, in particolare quella con l’Egitto, anch’esso alle prese con il contrasto dei movimenti islamisti, sia in versione neotradizionalista come la Fratellanza, sia in versione radicale, come i gruppi jihadisti legati ad Al Qaeda o all’Isis.
Ma il nuovo corso è funzionale anche alla competizione strategica con l’Iran. Una minore adesione all’intransigentismo wahhabita consente alla casa regnante saudita di presentarsi al mondo come l’alfiere del contenimento sciita senza dover rispondere all’accusa, politicamente costosa, di rappresentare l’altro volto del fondamentalismo che tiene in scacco il Medio Oriente. Togliersi di dosso quell’etichetta è decisivo perché Riad possa svolgere, senza troppi condizionamenti interni ed esterni, accanto a Stati Uniti e Israele, il ruolo di ferro e lancia nei confronti di Teheran.
L’attenuazione delle critiche “all’ambiguità saudita” consente a Riad di assumere con maggiore credibilità il ruolo di partner decisivo di quello schieramento che, dopo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, ha messo nuovamente l’Iran sul podio più alto delle figure del Nemico. Tramontata l’esperienza territoriale dell’Isis, il confronto principale nell’area torna, se mai ha cessato di esserlo, quello pluridecennale tra Arabia Saudita e Iran. A Riad ritengono sia giunto il momento di chiudere la partita e il contenimento interno nei confronti dell’estremismo religioso è funzionale a quello esterno nei confronti dell’Iran. La scena mediorientale, come è evidente è ancora assai infuocata.