La Stampa, 25 ottobre 2017
Il sogno breve del Benevento. Da modello a ultimo d’Europa
Come in uno psicodramma di Brecht-Weill, solo nel cuore del Sannio. Ascesa e caduta della città di Benevento, che trasformatasi in un piccolo Leicester per volare in due anni dalla Lega Pro alla serie A dove non era mai stata, si è schiantata negli almanacchi della vergogna italica, ottenendo l’imbarazzante record di zero punti e nove sconfitte nelle prime nove giornate di campionato, la serie pallonara più umiliante di tutti i tempi. Persino se comparata ai campionati inglese, tedesco e spagnolo. Due gol fatti, 22 subiti. Doloroso? Peggio. «Stiamo diventando una pietra miliare del riferimento negativo», sveleneggia Clemente Mastella, che una settimana fa aveva dato del cretino al tecnico dello Sparta Praga, Andrea Stramaccioni, reo di avere detto: «Non siamo mica il Benevento». Ogni grande storia ha dentro di sé una fragilità, una qualità interiore, destinata a mandare in rovina i protagonisti e chi sta loro vicino. Benevento e i suoi paradossi non fanno eccezione.
Gioia e frustrazione
Per ricapitolare un’odissea fatta di presidenti milionari, ma incapaci di trovare un centravanti come si deve, di sindaci smaliziati, di allenatori idolatrati ed esonerati, sostituiti da tecnici offesi con striscioni da suburra razzista, di tifosi perbene sbalorditi e di tensioni sociali mai sopite, bisogna partire proprio da Palazzo Mosti, dove Clemente Mastella esercita la sua funzione di sindaco dal giugno del 2016. Bei tempi, quelli. Ogni cosa funzionava alla perfezione. Il pallone e la sua vita. La somma della sua popolarità e quella del calcio avevano rimesso la città nel radar del dibattito pubblico. «Miracolo Benevento». «Esempio Benevento». E, ovviamente, «sogno Benevento». Si diceva così, anche se poi non era vero. Disoccupazione al 20% e danni dell’alluvione del 2015 (un miliardo e duecento milioni di euro nel Sannio) ancora appoggiati sulle spalle di una comunità incapace di tenere stretti i propri giovani. Ma c’era da giocare contro la Juve, e il Napoli e tutto il resto si sarebbe risolto da sé. L’umore era quello. E adesso? Come se non riuscisse più a controllare lo sgradevole formicolio di una scontentezza sempre più definita, Mastella attacca. «Adesso siamo uno stereotipo. Si comincerà a dire: ultimi come il Benevento. Oppure: fai sorridere come il Benevento. Il senso di euforia è stato sostituito da quello di umiliazione. Il sogno è diventato incubo. E a sentirlo di più sono le fasce più deboli della popolazione. Quelle per cui il calcio è religione». Che fa, sindaco, scende dal carro? «La società ha esonerato l’allenatore testimoniando che la situazione è grave. E poi sapesse quanti sono scesi dal mio, di carro». Se il parametro è quello, difficile dargli torto.
«Noi non molliamo»
L’altro protagonista di questa storia si chiama Oreste Vigorito ed è un settantenne piuttosto speciale, anche lui, come il sindaco (che non ama), con la sindrome di Wanda Osiris. Re Mida del Pallone, signore dell’eolico, una laurea in giurisprudenza, affari in ogni angolo del mondo, ha la capacità di gestire una montagna di euro così alta da far dire a Silvio Berlusconi: «Vigorito è tra le cinque persone che potrebbero comprare il Milan». Ha preferito il Benevento. «Berlusconi esagera. Ma è vero che non sono nel calcio per caso». Uomo rapido, abituato a fare da sé, quando legge i commenti dei tifosi sui forum («Siamo la barzelletta d’Europa») viene assalito dall’acidità di stomaco. «Con la serie A Benevento ha fatto bingo. Eppure sento che qualcuno recita il de profundis quando dovrebbe tenere accesa la fiamma». Mastella? «Chi recita il de profundis. O quelli come il presidente del Napoli, De Laurentiis, che parlando di noi fa lo spiritoso e invece dovrebbe farsi i cavoli suoi. E poi le do una notizia: noi restiamo in A. Si figuri se mollo». Non molla. Però ha mollato. Il tecnico della doppia promozione, Marco Baroni, e il suo direttore sportivo, Salvatore Di Somma. «È stata dura. Io lavoro solo con persone che stimo. E loro hanno fatto tanto per noi». In estate aveva cambiato sedici giocatori. Una follia. I rimpiazzi, d’accordo col tecnico, li aveva presi in B. Diciassette milioni di spesa. Ne avrebbe investiti molti di più, dice chi gli sta vicino. Ds e Baroni l’avrebbero sconsigliato. «Frena, pres». Sognavano il modello Chievo. Non ha funzionato. «Ho speso il giusto. Posso spendere ancora», dice oggi, infastidito come se uno sciame d’api gli fosse entrato in testa per pungergli il cervello. Per sostituire Baroni ha preso De Zerbi, tecnico noto per essere stato esonerato dal Palermo dopo il record di sconfitte in casa: 7. Perché lui? «Perché è bravo». I tifosi, che a giugno erano eccitati e insicuri come se fossero in groppa a un elefante e oggi da quell’elefante si sentono schiacciati, De Zerbi non lo amano. Da allenatore del Foggia parlò male di loro. E gli ultrà l’hanno accolto con uno striscione acido: «De Zerbi zingaro». Una vergogna, che suggella la fine del periodo d’oro. L’eccitazione è svanita, ma, giura il rapper Shark Emcee, «l’orgoglio sannita no. Siamo una città di provincia, dove uno schiaffo dato alla stazione, passando di bocca in bocca, diventa uno sparo in collina. Tendiamo a buttarci giù, ma siamo curiosi. Quella è la nostra salvezza». Lo dice rappando. E lo fa sembrare vero. Benevento si era affezionata al miracolo come ci si affeziona a un bicchiere di vino a cena. Per quella nebbia leggera che sale alla testa. Ora ha capito che la A è arrivata troppo in fretta e che neppure dai sogni ci si può far trovare impreparati.