la Repubblica, 25 ottobre 2017
Ma nell’Italia delle deroghe tra esodati e attività usuranti vanno a riposo i 63enni
ROMA I lavoratori non sono tutti uguali. Non lo dicono solo i sindacati, ma anche le tante deroghe di questi anni alla riforma Fornero del 2012 che ha sì messo in sicurezza i conti pubblici, ma innalzato bruscamente l’età della pensione. Nel 2019 si lascerà a 67 anni, ha sancito ieri l’Istat. Fino ad allora l’età d’uscita ufficiale sarà ferma a 66 anni e 7 mesi. Ma quella reale si terrà ben al di sotto. Già oggi gli italiani vanno in pensione a 63 anni, in media. «E ci vorrà un quinquennio almeno per arrivare a 65 anni, il livello europeo», stima Alberto Brambilla, presidente del centro studi Itinerari previdenziali.
Come mai? «Si partiva da una base molto bassa. Non dimentichiamoci che prima della Monti-Fornero bastavano anche 60 anni per l’anticipata e 62 anni per la pensione di vecchiaia». Ma poi le regole sono cambiate. E sono fioccate le eccezioni. A partire dalle 8 salvaguardie di questi anni per circa 160 mila esodati, i lavoratori rimasti all’improvviso intrappolati dalla Fornero perché troppo lontani dalla pensione e senza lavoro. E poi, anche se di minore impatto, opzione donna: un aiuto ad alcune lavoratrici per uscire con almeno 35 anni di contributi e poco più di 57 o 58 anni. Ombrelli che la politica e il Parlamento sono stati costretti ad aprire, per arginare le proteste. E che però si sono chiusi.
Ecco perché è nata l’Ape – invenzione del governo Renzi, implementata dall’esecutivo Gentiloni – l’unico strumento di fatto esistente per anticipare a 63 anni la pensione. Nelle sue tre forme: sociale (pagata dallo Stato), aziendale (coperta dalle imprese), volontaria (il prestito a carico del pensionato). Delle tre l’Ape sociale è di certo la più gettonata, non solo perché fino ai 1.500 euro mensili è gratis, cioè finanziata con soldi pubblici per quasi quattro anni. Ma perché viene incontro all’esigenza di lavoratori tra i più fragili: disoccupati, invalidi, con parenti a carico malati, impiegati in mestieri faticosi o rischiosi, precoci e dunque al lavoro da minorenni. Ai precoci le norme sull’Ape concedono anche uno sconto di un anno sul requisito contributivo (41 anni anziché quasi 43).
«Non c’è dubbio che l’Ape, soprattutto la sociale, abbasserà l’età media di uscita», conferma Brambilla. «Se in modo determinante, dipenderà dalle risorse impiegate». Per il 2017 ci sono 660 milioni, ma anche problemi di gestione a livello Inps (il 70% delle domande è stato respinto). Per il 2018 un miliardo e 159 milioni. Poi la misura muore perché sperimentale. A meno di stabilizzazioni e futuri rifinanziamenti. Va anche notato che l’Ape sociale si prende fino al momento della pensione. E che dunque si allunga assieme all’età di uscita, ora portata a 67 anni per tutti dal 2019. Oltre al fatto che la finanziaria dello scorso anno ha introdotto una moratoria di 10 anni per i lavoratori usuranti: a loro non si applicheranno gli adeguamenti automatici alla speranza di vita fino al 2027, con un guadagno probabile di un anno.
Ma i lavori usuranti – notturni, nelle cave, miniere o nel sottosuolo – possono pure contare sul vecchio sconto della Dini: 25% di contributi in più per ogni anno lavorato, così che quattro anni ne valgono cinque. Analogamente per le donne con figli, al massimo tre, ci sono fino a 12 mesi extra o a scelta un coefficiente più alto: possono andare in pensione prima o con un assegno maggiore. «Norme non cancellate dalle nuove e che si stratificano in assenza di un Testo unico», commenta Brambilla. Rendendo nuove eccezioni ancora più complicate.