Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  ottobre 25 Mercoledì calendario

Il resistibile ritorno della moda federalista

«L’aver disteso finalmente la rete del federalismo e delle responsabilità delle autonomie è un traguardo fondamentale». Così parlava nel marzo del 2001 il presidente del Consiglio Giuliano Amato, orgoglioso della riforma del titolo V della Costituzione che il suo governo di centrosinistra aveva da poco approvato nella speranza di contendere alla Lega e al centrodestra tutto la primazia sull’autonomismo all’italiana. Non funzionò. Nella «rete distesa del federalismo» inciampò prima Francesco Rutelli, candidato premier dell’Ulivo sconfitto di lì a pochi giorni da Silvio Berlusconi, quindi in un altro senso tutti i governi a seguire, costretti per anni a gestire lacune e incongruenze di una riforma varata con la stessa fretta con cui i tre quarti delle forze politiche – spaventate dall’egemonia leghista sul nord – si erano convertite alla lezione dei Cattaneo e dei Tocqueville. E meno male che c’erano i classici, a venire in soccorso dei neo-adepti, perché l’altra lezione fin lì disponibile – quella del professor Gianfranco Miglio, ideologo dei primi lumbard – non era spendibile a sud di Piacenza e a sinistra del Carroccio.
Guai comunque a sollevare dubbi, all’epoca. Erano giorni, quelli a cavallo tra i due secoli, in cui si faticava a trovare un politico che non si autodefinisse federalista. Il vestito era taglia unica per tutti e la sola distinzione ammissibile era l’aggettivo appuntato sul bavero: c’era il federalista “solidale”, il federalista “moderato” o quello “fiscale” – nel senso del fisco e non del rigore, va da sé, dato che di rigoroso il dibattito nazionale sul tema ha sempre avuto poco. Centralista era offesa grave, e risuonava spesso in quel campionario di frasi fatte sul consociativismo, lo statalismo e i “lacci e lacciuoli” che era la fortuna dialettica di decine di berlusconidi assisi sulle poltrone dei talk tv. Ma se la sinistra inseguiva, la destra non smetteva di rilanciare. Sulla grande riforma federalista si è avvitato per anni il centrodestra a trazione Bossi-Tremonti, senza che i conti tornassero mai, un po’ come al Guzzanti alter-ego del ministro dell’Economia.
Poi, lentamente, la moda è scemata. Gli studiosi del modello tedesco hanno lasciato il posto agli esegeti della tradizione francese, baluardo degli anti-federalisti. Complice la crisi, della italica devoluzione sono rimasti solo i buchi finanziari, dal diametro superiore a quelli legislativi. Di colpo, essere federalista non era più cool. Le Regioni hanno smesso di essere il faro del futuro e hanno cominciato a rivelarsi materia da Procura per le ruberie e da pamphlet per gli sprechi, e Fiorito, e i super-vitalizi dei consiglieri, e la voragine della sanità, e le mutande in nota spesa, fino alle ospiti delle cene eleganti di Berlusconi elette nei listini blindati di Formigoni, peraltro l’unico a essere nel frattempo precipitato più in basso degli ultras del decentramento. Finanche la Lega si è cambiata i connotati. Matteo Salvini ha rottamato il Sole delle Alpi e abbassato di parecchio la latitudine delle città ricamate a grandi caratteri sulle sue felpe. Nel centrosinistra è cominciata la gara a smarcarsi dalla riforma del titolo V, al punto che l’autocritica sulla riforma che tanto inorgogliva Amato è argomento sul quale si sono trovati in sintonia persino Massimo D’Alema e Matteo Renzi, il quale a differenza degli ulivisti di un decennio prima non si offendeva a sentir definire “neo-centralista” la sua riforma costituzionale poi bocciata dagli elettori con il referendum del 4 dicembre.
Ma ecco che, da un referendum all’altro, e con la Catalogna in mezzo, è bastato un niente per riprecipitare molti (tutti?) nella sbornia autonomista, come chi si sente di nuovo a rischio di essere superato dall’ineluttabile corso della Storia e dalla volontà dei popoli. La destra leghista torna a dettare l’andatura del gruppo, quella Cinquestelle dà volentieri il cambio e la sinistra confusa torna a chiedersi se questa è la fuga giusta. Di sicuro, non sembra più cosi urgente che l’autonomia suoni almeno «solidale». Cosa di serio possa produrre questa nuova ondata, emotiva prima che politica, è arduo prevedere. Mai arduo, però, quanto per Salvini accordare la sua svolta sovranista al ritmo dei tamburi del neo-federalismo.