Focus, 20 ottobre 2017
Fatemi una copia
Immaginate di essere già nel 2020, a Tokyo, alla 32a edizione delle Olimpiadi. E di assistere a tutte le competizioni di una nobile e tradizionale disciplina come l’equitazione, e poi alle premiazioni. Ora, pensate di scoprire che tutti i vincitori delle medaglie – oro, argento e bronzo – erano in sella a un unico cavallo. Ma com’è possibile che un singolo esemplare abbia vinto tutte le gare? Siamo andati troppo in là con la fantasia? Solo un po’, in realtà. La situazione è sì ipotetica, ma possibile: tutti i cavalli, infatti, potrebbero essere cloni di un solo purosangue. Copie perfette di un unico animale, insomma.
E neanche pensarli alle Olimpiadi è così fantascientifico. Nella finale di uno dei più importanti tornei di polo, l’Argentina Open, disputata a Buenos Aires nell’ottobre 2016, hanno partecipato sei cloni dello stesso cavallo, una femmina: si chiamavano tutte Cuartetera, da 1 a 6. In sella c’era il campione argentino Adolfo Cambiaso – il numero uno del polo al mondo – che cambiando le sei giumente ha portato la sua squadra alla vittoria. E non era nemmeno la prima volta, visto che Cambiaso aveva già cavalcato un clone in una precedente, vittoriosa partita. Insomma, la clonazione – la scienza di replicare un essere vivente – ha fatto passi da gigante dai tempi della pecora Dolly, nata nel 1996: il primo mammifero ottenuto da una cellula del corpo (prima c’erano stati un girino, una carpa, e tentativi fatti con cellule non di adulti ma di embrioni). Adesso, gli animali-copia sono letteralmente usciti dai laboratori.
SCESI IN CAMPO. Si va dai cavalli vincenti sui campi da polo, appunto, ai cani che scodinzolano in varie case del mondo: copie di un quattrozampe scomparso, che i padroni hanno fatto riprodurre. L’elenco delle specie che siamo riusciti a clonare è ormai lungo: bovini, gatti, maiali, capre dalla lana pregiatissima, dromedari... Serve solo una cellula dell’animale da replicare, da cui si estrae il nucleo, che contiene l’intero patrimonio genetico dell’organismo: questo nucleo si inserisce al posto di quello, eliminato, di una cellula uovo di una femmina della specie. L’ovulo si fa moltiplicare e diventa un embrione, impiantato nell’utero di una madre surrogata. A questo punto, il processo di crescita è simile a quello naturale. Minuscole variazioni dovute a mutazioni del Dna possono causare differenze con l’originale, ma nella maggior parte dei casi il risultato è una copia identica. Con queste tecniche si è arrivati nel 2003 al primo clone di un cavallo: una femmina, nata nel Laboratorio di Tecnologie della Riproduzione del Consorzio per l’incremento zootecnico di Cremona e battezzata Prometea. Da qui in pochi anni si è giunti ai quadrupedi della Crestview Genetics, compagnia fondata dal petroliere texano Alan Meeker insieme con Adolfo Cambiaso: i suoi cloni sono ormai più di duecento, tra cui i sei che l’argentino ha cavalcato nella partita di cui parlavamo. E uno dei cavalli è stato venduto per 800.000 dollari.
«Gli esperti di epigenetica con cui ho parlato mi dicevano che la mia idea di replicare perfettamente un cavallo campione era una follia», commenta Meeker. Si riferisce al fatto che vari fattori possono modificare l’espressione dei geni, anche se il Dna è identico (questi fenomeni sono appunto studiati dall’epigenetica); a ciò si aggiunge poi l’influenza delle esperienze sul carattere. Per questo, Meeker fa persino crescere i puledri in condizioni controllate, riproducendo l’ambiente esatto in cui è stato allevato il purosangue originario. Rivendica di «aver ridotto il più possibile le differenze tra l’originale e i cloni». Ed è convinto di aver zittito i critici con dimostrazioni come la vittoria di Cambiaso.
È LA STESSA GATTA? Se Meeker si occupa di copiare fuoriclasse equini, nel caso degli animali domestici ci sono invece compagnie che offrono a padroni addolorati una copia del proprio cane o gatto morto, ottenuta a partire da campioni di tessuto. Nel 2005, in Corea del Sud, il levriero afgano Snuppy divenne il primo cane clonato della storia: lo ottenne Woo Suk Hwang, poi cacciato dall’università di Seul per uno studio in cui mostrava di aver ottenuto cellule staminali embrionali usando la clonazione. I risultati sull’uomo si rivelarono falsi, ma il clone canino era vero. Il team di Hwang ha fondato così la compagnia Sooam Biotech, che sostiene di aver ripetuto con successo l’operazione circa 900 volte, facendosi pagare 100.000 dollari a cucciolo. Non è la sola: altre aziende offrono “gemelli genetici” del cane o anche del gatto di casa. Ma nelle braccia dei padroni tornano copie perfette dell’animale scomparso? Sì e no. Perché, come abbiamo detto per i cavalli, oltre ai geni entrano in gioco fattori diversi. Gli animali possono apparire identici, ma sviluppare un carattere o abitudini diverse. L’aneddoto più celebre, a questo proposito, riguarda il primo gatto clonato, alla Texas A&M University nel 2001: CC (Carbon Copy), una micia vivace al contrario dell’originale, la riservata Rainbow. Inoltre, tra le gatte c’erano anche vistose differenze nella pelliccia: Rainbow aveva macchie arancioni, mentre in CC il gene responsabile di questo colore era rimasto inattivo e quindi sul suo manto la tinta è risultata assente.
Il fatto di non poter garantire che il clone sarà uguale all’originale è la prima delle obiezioni sollevate di fronte alla clona zione degli animali domestici, il campo che forse più ha sollevato critiche: c’è chi, per esempio, si interroga sull’opportunità di spendere cifre enormi per avere una copia del proprio cane. Oppure, e questo vale anche per altri animali, chi teme che si rinunci a quello che è il continuo miglioramento delle razze attraverso il rimescolamento genetico.
DROMEDARI E CAPRE DA CACHEMIRE
Comunque, la lista delle copie ormai va ben oltre cavalli e gattini. E la “corsa al clone” in atto nel mondo dipinge tra l’altro un affascinante mosaico culturale. Un laboratorio in Spagna ha clonato nel 2010 un toro da corrida. A Dubai (Eau) hanno duplicato il primo dromedario nel 2009: una femmina, che due anni fa ha avuto un cucciolo. All’India è andato il primato per il primo bufalo d’acqua della locale razza Murrah, ma anche della prima capra di razza Changthangi, che dà la lana chiamata pashmina, un finissimo cachemire che si usa per le sciarpe: ci è riuscito nel 2012 un laboratorio nello Stato di Jammu e Kashmir, una delle aree in cui vive la capra.
Comunque, sono gli animali da allevamento come i bovini, le pecore o i maiali il soggetto privilegiato delle ricerche e del mercato. L’obiettivo, in questo caso, è replicare gli esemplari “perfetti”: senza difetti, molto produttivi, più resistenti alle malattie o comunque con caratteristiche desiderabili. Negli Usa, per esempio, i ricercatori della West Texas A&M University sono partiti da cellule prese da bistecche di particolare qualità e hanno clonato un toro e tre mucche: da questi, è poi nata una progenie di vitelli dalle carni pregiate.
FATE FIGLI. Ci sono compagnie che offrono già il “servizio copia” agli allevatori negli Stati Uniti, in Cina e in Sud America. Il destino dei cloni in questo caso è quello di fare figli, per così dire, in modo tradizionale: si creano più copie degli esemplari migliori in modo da usarli per la riproduzione e così diffondere più velocemente le loro caratteristiche favorevoli nella mandria.
«Lo scopo primario dei cloni è la riproduzione», non la produzione di cibo, di carne o di latte: lo si legge sul sito della Fda, la Food and Drugs Administration americana. Perché è più vantaggioso per gli allevatori (in fondo, la procedura resta piuttosto costosa), in realtà, non per preoccupazioni sulla sicurezza alimentare: dopo le verifiche, infatti, la Fda ha stabilito che la clonazione non immette alcuna nuova sostanza nell’animale e quindi il latte o la carne di bestiame clonato sono sicuri quanto gli altri.
PREOCCUPAZIONI ETICHE. È invece più restrittiva la situazione in Europa, dove nel 2015 il Parlamento europeo ha votato il divieto di impiego di questa tecnica negli allevamenti, ma anche la vendita di cloni, della loro progenie o dei gameti (le cellule sessuali, usate per l’inseminazione artificiale), e dei prodotti da essi derivati. La motivazione del veto è stata etica: la procedura è infatti messa in discussione per le sofferenze che provoca agli animali, considerato che per esempio c’è un’alta mortalità durante lo sviluppo del feto e dopo la nascita, a causa di vari difetti fisici. La risoluzione invece non riguarda la clonazione a scopi di ricerca, né gli sforzi di moltiplicare esemplari di specie in pericolo.
VIA LIBERA Al GIOCHI. A questo proposito, bisogna infatti ricordare che c’è chi propone di usare questa tecnologia per moltiplicare animali di cui sono rimasti pochi esemplari, o persino per riportare in vita specie scomparse dalla faccia della Terra, come i mammut. E, infine, in molti laboratori si punta a combinare la clonazione con l’editing genetico, ovvero la tecnica che permette di modificare il genoma degli animali: l’idea è avere più copie di esemplari creati, per esempio, per essere suscettibili a determinate malattie e quindi utili alla ricerca, o per diventare serbatoi di organi da usare per i trapianti.
Ora non ci resta che aspettare e vedere se i cloni arriveranno davvero alle Olimpiadi: dal 2012 questi cavalli e la loro progenie sono infatti ammessi ai Giochi, anche se finora nessuno si è presentato in pista in sella a un clone.
Gabriele Ferrari