Gazzetta dello Sport, 25 ottobre 2017
Si va in pensione più tardi

Gli italiani vivono di più e la cosa è fonte di gravi preoccupazioni e polemiche.
• Strano.
Già, strano. Invece di esser contenti... Ma insomma, la faccenda sta in questi termini. Esiste un indice che si chiama «speranza di vita». Wikipedia lo definisce bene: «Il tasso o speranza di vita è un indicatore statistico che esprime il numero medio di anni della vita di un essere vivente a partire da una certa età all’interno della popolazione indicizzata.» Fino all’altro giorno, questo indicatore statistico dava a quelli che oggi hanno 65 anni una speranza di vita di 20 anni giusti. Ma dall’ultima rilevazione, questa speranza di vita dei sessantacinquenni italiani è cresciuta di sette mesi. Chi compie 65 anni di vita oggi camperà mediamente fino a 85 anni e sette mesi.
• Bisognerebbe festeggiare con canti e balli, direi. Tanto più che questa speranza di vita aumenta tutte le volte.
No, c’è stato un momento, nella primavera dell’anno scorso, in cui era diminuita di qualche mese. E anche su questo contavano i sindacati per modificare gli automatismi della legge Tremonti confermati dalla Fornero, e cioè che il momento dell’andata in pensione non dipendesse più da una decisione politica da prendere di volta in volta, ma fosse automaticamente legato alla speranza di vita sancita dall’Istat. Cioè: aumenta la speranza di vita e si ritarda di conseguenza l’andata in pensione. Ergo: non sarà più concesso di ritirarsi a 66 anni e 7 mesi, ma bisognerà aspettare i 67 anni, cinque mesi in più. Alla notizia, ho visto in redazione scotimenti di teste e sospiri, e ho sentito frasi sconsolate del tipo: «Non ci arriveremo mai». Ma non è vero: i giornalisti di Gazzetta, la maggioranza dei quali non ha neanche 65 anni, sono italiani e camperanno bellamente fino a 85 anni e oltre.
• Vorrei sentire i ragionamenti di quelli che si dolgono.
Non scherziamo, poveracci. Non si dolgono delle vite più lunghe, ma del fatto che l’età pensionabile non resta dov’era o addirittura non si abbassa, come la Cgil e gli altri pretendevano si stabilisse nella legge di stabilità. Richiesta a cui Padoan non ha dato il minimo ascolto («c’è una legge, applichiamo la legge»). Camusso: «È indispensabile fermare la follia di un automatismo perverso che porta a peggiorare periodicamente l’età pensionabile dei lavoratori. I dati diffusi dall’Istat che attesterebbero, dopo un periodo di calo dell’aspettativa di vita, un aumento di cinque mesi, confermano l’urgenza di fermarsi e riconsiderare un meccanismo scorretto e penalizzante. Il governo aveva assunto l’impegno a discuterne». Noti la delicatezza di quell’«attesterebbero»: la leader della Cgil dubita della veridicità dell’Istat. Ma sono sulla linea del «così non si può andare avanti» anche i due presidenti delle commissioni lavoro di Camera e Senato, Cesare Damiano e Maurizio Sacconi, uno di sinistra e l’altro di destra, che hanno tenuto una conferenza stampa per sostenere che lo spostamento in avanti dell’età pensionabile «è iniquo».
• È iniquo?
Padoan ha detto di no a qualunque spostamento, e probabilmente lascerà le regole Tremonti-Fornero così come sono, in base a calcoli dell’Inps e della Ragioneria Centrale dello Stato. Secondo l’Inps il costo del mancato adeguamento alla nuova speranza di vita vale 141 miliardi nei prossimi dieci anni. Tra l’altro proprio Sacconi, che adesso parla di iniquità, firmò con Tremonti quella legge. E in ogni caso, anche senza adeguamento, l’aumento dell’età a 67 anni scatterebbe comunque nel 2021.
• I lettori non saranno contenti del fatto che lei sembra d’accordo con questi 67 anni. I lettori, in un caso come questo, tifano chiaramente per Camusso-Sacconi-Damiano.
Lo so. Bisogna però che il lettore sia ragionevole e tenga conto di due fattori almeno. Primo: in genere si arriva oggi a 65 o a 67 anni in buona salute, si è cioè di solito perfettamente in grado di lavorare. Se ci guardiamo intorno vediamo tanta gente che continua a fare quello che faceva prima prendendo la pensione e facendosi pagare delle buone consulenze. Niente di male, ma i conti dello Stato sono quello che sono.
• E la seconda ragione?
La seconda ragione è che mentre aumenta progressivamente il numero dei vecchi, diminuisce progressivamente il numero dei giovani e alla fine non si sa con i contributi di chi saranno pagate queste pensioni, che infatti, presumibilmente, i giovani d’oggi vedranno con il lumicino. Dice l’Istat - e alla Camusso converrebbe crederci - che l’Italia perde ogni anno dalle 600 alle 800 mila persone, e che questa perdita non dipende dalla naturale dipartita di chi è vecchio, ma dalla mancanza di nascite. C’è e ci sarà sempre meno gente che paga i contributi mentre il numero dei vecchi da mantenere sarà sempre più alto. Le cito Enrico Morando, un illustre del Partito Democratico, attuale viceministro dell’Economia: «Abbiamo già bruciato gli effetti (i risparmi) della riforma Fornero a causa della demografia: la spesa per le pensioni nel 2009 era di 231 miliardi; nel 2016 siamo a 265». Ci sarebbero, a tappare il buco, i migranti regolari e i ragionamenti fatti dal presidente dell’Inps Tito Boeri. Secondo una simulazione fatta dall’istituto, se bloccassimo l’arrivo di stranieri dai Paesi extra-Ue da oggi al 2040 perderemmo 38 miliardi di euro. Gli stranieri, oltre tutto, spesso se ne tornano a casa prima del tempo e i contributi versati li perdono con un vantaggio per lo Stato italiano, dice Boeri, di 300 milioni medi l’anno. Ma gli stranieri non li vogliamo. Quindi, perché parlarne?