Affari&Finanza, 23 ottobre 2017
Amazon e Google, viaggio nel pianeta che non invecchia mai
Fatta la prima rampa di scale, l’insegna si trova sulla destra. Gialla, luminosa, con le lettere nere che si stagliano sul fondo: Day 1. Per Amazon, colosso del commercio elettronico, è un mantra. Ed è anche il nome dato alla prima delle tre torri del suo nuovo quartier generale a Seattle da quattro miliardi di dollari. Lo sfoggio di potenza in chiave architettonica è diventato di moda fra i colossi della tecnologia, come lo è stato in passato fra dittatori, re e presidenti. L’altro tratto comune è la fobia per l’invecchiamento che si traduce in un singolare paradosso: in aziende con una capitalizzazione da 400 o 500 miliardi di dollari, si finge di essere in una startup per mantenere lo spirito pioneristico, e corsaro, delle origini. La paura è che qualcun altro, stavolta davvero più giovane, possa arrivare dal basso e mandarle a gambe all’aria, come fecero loro all’inizio con chi le ha precedute. Bisogna vivere nel “Day 1”, appunto. Il primo giorno di lavoro, con la voglia di farsi notare, il primo giorno dell’azienda che ha voglia di farsi largo. «Lo dicono tante multinazionali, ma poi a riuscirci sono davvero in poche», racconta Sebastian Gunningham. Per incontrarlo, in una piccola stanzetta destinata alle riunioni, siamo saliti al dodicesimo piano della torre Day 1. Classe 1963, è ad Amazon dal 2007 e la sua cultura la conosce bene. Vice presidente di vecchia data, con un passato ad Apple e Oracle, di lui si disse qualche anno fa che fosse fra i più vicini al fondatore Jeff Bezos, monarca di un regno da 341mila dipendenti, con un giro d’affari annuo da 136 miliardi di dollari e oltre 300 milioni di clienti. «Coltiviamo l’errore come valore», prosegue Gunningham. «Non mi fraintenda: non incoraggiamo lo sbaglio, ma sappiamo che costruendo il futuro potremmo compiere qualche passo falso». Ogni compagnia di Silicon Valley ha le sue formule magiche per restare adolescente. Tentare di anticipare il futuro, certo, e poi sbandierare all’esterno l’informalità, l’organizzazione orizzontale, il culto dei tempi della fondazione: il garage di Apple e Google; il muro dove scrivere qualcosa con il pennarello a Facebook in memoria della prima versione del social network ( write something on your wall ); lo scivolo di YouTube per ricordarsi di esser stati bambini; il poter portare a spasso i cani per gli uffici di Amazon in onore di Rufus, la mascotte degli esordi. Ma come spiega al telefono Ethan Zuckerman, direttore Center for Civic Media del Mit, «le grandi multinazionali dell’hi-tech non hanno ancora scoperto il segreto della permanenza, a differenza dei partiti po-litici, e dopo aver raggiunto l’apice tremano all’idea di appassire». Nokia e BlackBerry, sono fantasmi che spaventano, giganti che un tempo sembravano imbattibili. «Se sei una startup in cerca di finanziamenti, ti basta un sì per dar vita alla tua idea», aggiunge Gunningham. «Nelle grandi compagnie è l’opposto: basta un no nella catena di comando e la tua idea è morta». La struttura orizzontale qualcuno riesce davvero a metterla in piedi. Netflix o Nvidia ad esempio che però hanno “solo” tremila e cinquecento dipendenti la prima e circa 12mila la seconda. Netflix si può perfino permettere di non concedere le ferie perché le persone le prendono quando vogliono. Il risultato? Ne chiedono poche essendo responsabilizzate e lavorando per obbiettivi e non in base all’orario. Dentro Nvidia i gruppi si formano trasversalmente secondo le esigenze. Il sistema funziona e lo prova non solo il valore delle azioni passate dai 25 dollari di due anni fa ai 190 di oggi. Nata nel 1993 a Santa Clara, è un’azienda che ha cominciato dalle schede grafiche per approdare all’intelligenza artificiale e alla guida autonoma. «Abbiamo tentato di entrare nel mondo del mobile con processori molto performanti», spiega Danny Shapiro, a capo della divisione automotive. «Consumavano troppo. Abbiamo rimediato convertendoli nel cuore delle console portatili e delle vetture prive di pilota». Si dirà: sono stati fortunati, quei processori grafici oggi si usano ovunque proprio grazie alla loro velocità. Dalla finanza alla ricerca, dalla medicina alla visione artificiale. Resta il dato di fatto: la compagnia di Shapiro ha dato prova di sapersi muovere con molta agilità. E anche lei, come Netflix, all’età anagrafica bada poco. Twitter al confronto, malgrado abbia anche lei pochi dipendenti, è inciampata a più riprese. E lo stesso vale, anche se per motivi diversi, per Uber. Nelle compagnie più grosse il vantaggio di organizzazioni poco gerarchiche, e piene di giovani, è nei costi: tanti stipendi medi e pochi di alto livello. Amazon nei suoi magazzini ha un manager ogni duecento addetti e le altre divisioni rispecchiano questo schema. Chi si trova nella base respira un clima egalitario ma è anche facilmente sostituibile con nuove forze, ben contente di accettare la logica del Day 1. L’azienda non fornisce smartphone, malgrado siano strumento di lavoro e non offre mense gratuite come invece fa Facebook, Apple, Google. A Seattle la chiamano “frugalità” ed è valore fondante considerato proprio di una compagnia rampante al suo esordio, malgrado un amministratore delegato, Bezos, che può contare su un patrimonio personale pari a 84 miliardi di dollari. A ottobre di due anni fa, Larry Page e Sergey Brin hanno fondato Alphabet, la compagnia che detiene fra le altre la stessa Google e YouTube. Una collezione di società diverse per cercare di mantenere la mentalità degli inizi. “Con il tempo le aziende tendono a sentirsi a proprio agio facendo sempre la stessa cosa”, scrisse in quell’occasione Page. “Ma nell’industria della tecnologia, dove idee rivoluzionarie portano allo sviluppo di nuovi settori, devi stare scomodo per continuare ad essere rilevante”. Camminando nel campus di Google ci si imbatte di continuo in simboli ormai vuoti: macchine da sala giochi, garage dove stampare in 3D, colori sgargianti. Per “stare scomodi”, per cambiare, forse dovrebbero cominciare a farne a meno. Tanto in pochi li adoperano. «Facebook ha rischiato molto qualche anno fa e non si è salvata per il clima giovanilistico che suggerisce l’arredo delle sue sedi», racconta Omar Abbosh, a capo delle strategie globali del colosso delle consulenze Accenture che conta su mezzo milione di dipendenti. «È stata l’acquisizione di Whatsapp per 19 miliardi di dollari nel 2014. di Instagram due anni prima per un miliardo e poi l’aver puntato alla pubblicità legata ai video online. L’acquisizione è il metodo più usato per evitare di invecchiare, da sempre. Un altro, quello che abbiamo scelto anche noi, è di avere all’interno strutture autonome. Il pericolo è che si prendano direzioni opposte, il vantaggio sta nell’aiutare le nuove iniziative che altrimenti potrebbero nascere all’esterno». Del resto si rischia anche se si sceglie la strada opposta: Apple, con la sua struttura verticale rigida, ha la capacità di applicare strategie molto efficaci. Eppure, se i vertici perdono l’istinto all’innovazione tutta l’azienda ne risente. «L’ossessione per la giovinezza ormai sfiora il ridicolo», commenta David Bevilaqua attuale presidente della Yoroi ed ex vice presidente di Cisco per il sud Europa. Di strutture aziendali si è occupato frequentemente, passando per estremista per le sue teorie sulla necessità di una classe manageriale al servizio dell’efficienza dei dipendenti. «Esiste un giusto rapporto fra competenza ed esperienza. Se tutto è “giorno uno” significa che credi poco all’esperienza e soprattutto non la vuoi pagare. Non stupisce che nella Silicon Valley i casi di discriminazione in base all’età sono diventati più frequenti di quelli legati al sesso e alla razza. È una guerra al passato». Per essere diversi da qual che c’è stato prima, in California, hanno finito per condurre una lotta generazionale silenziosa riuscendo ad accumulare miliardi di dollari. Che però abbiano anche trovato il vero segreto della giovinezza è ancora da dimostrare.