Tuttolibri, 21 ottobre 2017
Nessuno può volare ma tutti possono essere felici. Questo libro è nato con mio figlio George, malato di sclerosi
Da ragazzo, George non amava viaggiare. Preferiva la casa di campagna siciliana dell’adorata nonna a Mosè, dove la famiglia passava l’estate da generazioni, anziché lanciarsi come suo fratello Nick in viaggi avventurosi in India e in sud America. Lasciata l’università, aveva trovato lavoro in una banca di affari nella City. Era contento della sua vita: non si allontanava da Londra se non per brevi viaggi in posti con ristoranti stellati e bei negozi.
A ventotto anni George prese moglie e tre anni dopo mi annunziò che sarei diventata nonna. Elena Hornby, chiamata con il nome di mia madre, era una neonata sana e rosea con il naso simile a quello del suo papà. Due giorni dopo mia madre ed io andammo a vederla a casa. Mentre ero lontana da mia madre George mi bisbigliò: «non riesco a prenderla in braccio, mi sembra di non poterla reggere». «Vai dal medico», sussurrai. «Ho già fissato», rispose in un soffio e poi rivolse lo sguardo a mia madre, tutta occhi e sorrisi per la bimba.
Iniziò allora un iter di visite mediche di sei mesi. Tutto era sospeso, anche la felicità, nonostante avessi realizzato il sogno di tornare in città nell’appartamento vicino a Victoria Station, e avessi completato la stesura de La Mennulara. Aspettavo serena la risposta dell’editore. Continuavo il lavoro di avvocato, e mi godevo il ruolo di nonna. Stavo scrivendo La Zia Marchesa.
Mi era stato detto che nella prima settimana di marzo avremmo ricevuto il responso dei medici e la risposta della Feltrinelli a cui Giovanna Salvia, che collaborava con la casa editrice, aveva mandato il manoscritto. Allora cominciai a preoccuparmi: sapevo che i sintomi di George potevano essere quelli di una sclerosi.
Il tre marzo del 2002 la voce con cadenza milanese di Alberto Rollo mi annunciò al telefono: «Ha talento. Vorremmo pubblicare il suo romanzo». La notizia mi sembrò un presagio di cattive notizie su Giorgio. E così avvenne. Sclerosi multipla primaria e progressiva, quella che colpisce un malato di sclerosi su seimila, per cui non c’era cura. Di positivo, c’era soltanto che non era ereditaria. Una notizia che sconvolse la famiglia.
Da allora, a casa Hornby si convive con la sclerosi.
L’anno seguente George e la moglie ebbero un secondo figlio, Francesco: una famiglia felice e coraggiosa. Io mi immergevo nella scrittura, l’unico modo per dimenticare la malattia, i cui sintomi erano già visibili. Scrivevo dovunque io fossi: su carta quando fuori, e a casa sul computer.
Poi mi trasferii in un appartamento nel quartiere di George: lui stava a casa, mentre la moglie lavorava a tempo pieno. Con il passare degli anni la moglie non resse più e chiese il divorzio. Non riuscivo a biasimarla: ci aveva provato in ogni modo, ma tutto era troppo.
Allora comprai la casa accanto a George, dove i figli vivevano metà del tempo. George era tristissimo, usciva poco e mi sembrava pietoso quando i figli stavano dalla mamma. Lo incoraggiai ad uscire in autobus e andare a teatro. Lo coinvolsi anche nei miei impegni televisivi: girare per Rai 3 Io e George gli piacque moltissimo.
Nessuno può volare è il nostro secondo programma televisivo e la sua prima esperienza di scrittura. La struttura del libro era stata discussa nel dicembre precedente con Alberto Rollo, che ha sostenuto e incoraggiato George passo per passo: a lui dobbiamo anche l’inserimento delle sue interferenze, preannunziate dal simbolo di una mongolfiera, che ammontano ad un terzo del testo.
Volevamo capire perché nella cultura e nell’arte occidentale i malati, i disabili e i deformi non hanno mai avuto posto, e perché sono tuttora messi da parte o esclusi dalla società. Perché adesso che si trovano gabinetti per disabili dappertutto, questi sono spesso malfunzionanti, o peggio, usati come deposito o ripostiglio? Perché mancano maniglie, specchi, e perfino un lucchetto, che garantisce la privacy dell’utente? Perchè alcuni albergatori mentono dicendo che tutte le stanze per disabili sono occupate? Queste domande ci hanno spronati a scrivere velocemente e in profondità.
Scrivere a quattro mani non mi era nuovo, ma questa volta era totalmente diverso. Buttavo giù le mie riflessioni e il mio pensiero si allontanava dal testo e andava a George. Che ne penserà? Starà scrivendo anche lui?
Ci vedevano ogni giorno, ricostruivamo insieme i ricordi e ci divertivamo. Se i ricordi divergevano, ciascuno scriveva la sua versione. Non ci leggemmo i testi a vicenda fino alla prima bozza.
Mi ero accorta che avevo cambiato il modo in cui scrivevo. Non più seduta invariabilmente alla scrivania, mi spostavo per casa, scegliendo quasi intenzionalmente un posto da cui potevo vedere la casa di George, o il suo giardino oppure la strada su cui usciva in carrozzella.
In passato lavoravo sdraiata, prima di dormire. Questa volta non riuscivo a godere del conforto di cuscini soffici e di un materasso comodo. Pensavo a George che nel suo letto non può muoversi, e che ha bisogno di qualcuno che lo aiuti ad alzarsi.
Riportare sul testo le note scritte a mano sulla storia passata e presente dei disabili era particolarmente penoso. Anche parlare dell’assenza di disabili nell’arte mi lasciava la bocca amara. A volte non riuscivo ad andare avanti. Guardavo dalla finestra di casa mia la stanza da pranzo di George, e mi sembrava una distanza incalcolabile tra due mondi diversi, il mio e il suo. Avrei voluto andare a trovarlo ma sapevo che adesso preferiva visite prestabilite. Poi, lo vedevo uscire da casa sua, pimpante nella sua carrozzina, forse diretto ad un incontro e mi sembrava vicino, sano e perfetto.
Scrivere in Italiano era difficile per George. Preferì scrivere in inglese e farsi tradurre da Emma Paoli, una studentessa universitaria fiorentina che lo ha aiutato splendidamente.
Il libro è stato completato con Giovanna Salvia nell’estate 2017. Non gronda di tristezza, rabbia o autoreferenze. È il semplice racconto di una bruttissima malattia vissuta bene nel contesto di una famiglia unita e di una società che aiuta i disabili (o meglio «gli imperfetti», come George preferisce descriversi con l’ironia che non lo abbandona mai).
Avevo una grande paura che Nessuno può volare non avrebbe incontrato il favore del pubblico. George l’avrebbe vissuta come un’altra sconfitta per i disabili e per se stesso. Io ero convinta di avere il dovere civico di pubblicarlo. Adesso so che ne è valsa la pena. Durante le presentazioni dell’ultima settimana ho visto che c’è tanta buona gente in Italia, che vuole aiutare i disabili, migliorare i servizi e abbattere le barriere architettoniche. Il mio primo obiettivo è che innanzitutto i luoghi aperti al pubblico mantengano il loro bagno per disabili pulito e attrezzato. Anche loro hanno diritto alla privacy, a guardarsi allo specchio, a potersi lavare ed asciugare le mani. Spero che fra un anno questo sarà attuato: allora avremo le condizioni necessarie perché i disabili possano riprendere possesso della loro città.