il Giornale, 21 ottobre 2017
A lezione di alambicchi e storia dagli ultimi custodi della grappa
Poveri gli agronomi di tutto il mondo, che per visitare l’archivio globale delle sementi devono spingersi fino alle gelide Svalbard e una volta arrivati non trovano neppure un bicchierino a scaldarli. A chi ama la grappa, invece, va molto meglio. Perché l’Arca del tempo che custodisce i segreti e la tradizione secolare dell’unico vero distillato italiano è a pochi chilometri da Vicenza, dove lavorano e portano avanti la loro missione i custodi della grappa, la famiglia Poli.
Schiavon è un paesino a due passi da Bassano, non distante da dove nel Quattrocento tale Polo ottenne in uso «cuatro campi de tera, tre pegore e tre vache». Se oggi dalla distilleria dei suoi discendenti escono ogni anno 200mila bottiglie tra grappe, brandy, liquori, amari e perfino gin, forse qualcosa in questi sei secoli è successo. E merita di essere raccontato, magari pure in dialetto, che suona bene.
L’idea di Jacopo Poli che coi fratelli, la moglie e la famiglia allargata dei dipendenti porta avanti l’azienda aperta nel 1898 – è tutta qui: non limitarsi a produrre, ma provare a spiegare. Non è poco. È una rivoluzione culturale e comunicativa che parte nel ’93 con la sede di Bassano del Museo della Grappa, che oggi fa oltre 160mila ingressi l’anno; poi sono arrivate le visite guidate in distilleria (fino a 5mila turisti al giorno!), il portale informativo grappa.com e la seconda sede del Museo accanto alla distilleria; infine le giornate dedicate alla conoscenza di quel che siamo abituati a considerare semplice cicchetto da Alpini o correzione da caffè, ma che in realtà è un patrimonio artigianale e quasi artistico.
Proprio in una di queste giornate, avendo la fortuna di poter essere «Grappaiolo per un giorno», gli stereotipi si dissolvono come la nebbia sui Colli Berici. Fare, annusare, tagliare code e teste di distillazione, aiuta a capire. Così come aiuta sfrondare la giungla di prodotti industriali e senza storia che negli anni ’70 hanno invaso il mercato, condannando a bere male milioni di italiani e condannando a morte quasi duemila distillerie artigianali. Oggi in Italia solo una novantina lavorano ancora con alambicchi discontinui e qui, tra caldaie di rame d’epoca, duemila bottiglie da collezione e volumi antichi di alchimia e medicina, la differenza è evidente. Per questo l’intuizione arriva netta come il profumo di vinaccia di Moscato: per la grappa non esisterà un futuro se non si innaffiano e rinsaldano le sue radici nel territorio e nella società.
Mentre ti aggiri col tuo grembiule, ti raccontano che dove ora c’è il museo ci tenevano i conigli fino a una ventina d’anni fa; la Moto Guzzi rossa appesa è quella che il padre di Jacopo usò dopo la guerra per arrivare a Capo Nord; l’amaro della casa si chiama «Vaca Mora» come il trenino a vapore che passava davanti alla distilleria. La storia è dietro ogni tramezzo. Poco conta che in laboratorio un marchingegno dissezioni le grappe alla ricerca di esteri ed alcoli. La storia dei Poli, della grappa e del Veneto conteranno sempre più della tecnologia. Ti viene il sospetto quando vedi scintillare la cassetta conta-litri di epoca asburgica, o i 12 cavalieri dell’alambicco storico; ne hai la certezza mentre sudi e scarichi le vinacce dopo la «cotta»: a due passi c’è Crysopea, l’alambicco sottovuoto di ultima generazione, ma in mano non hai che un sacco di iuta con cui afferrare il cestello e a fine lavoro non ti restano per rassettare che pala e scopa, i simboli del tempo che per certe cose fortunatamente si deve fermare.
Eppure il tempo qui da Poli conta, eccome. Ne deve passare il meno possibile dalla vendemmia alla distillazione, ne passa parecchio quando le grappe riposano in una delle 3.500 barrique nella cantina dove è stata girata la fiction Di padre in figlia. Sostiene Jacopo che il segreto di una buona grappa siano vinacce fresche e cento anni di esperienza. Naso e palato, quando degusti una grappa di Sassicaia che da nove anni sta accoccolata in botte o un’anteprima della prossima creazione «Due Barili», confermano che la ricetta funziona. Lo conferma anche il cuore, perché commuove ascoltare i ricordi degli anziani dipendenti raccolti in un filmato: il bagno caldo in distilleria il sabato, la signora che con gli stipendi si era fatta la dote, quella volta che per un bicchiere di troppo si persero in tre fra i campi. C’è un’aria di casa di una volta che rende tutto più magico, sicché poi solo la comitiva di turisti lussemburghesi in gita ti riporta alla realtà e a vedere tutto come quel che è, fuor di suggestione. Ovvero un’impresa italiana con il suo export, il suo giro di affari e la sua filosofia.
«Ciascuno si basa sul suo brassolaro» è un detto che ha a che fare con lo strumento che si usava per intrecciare la paglia per i cappelli. Ognuno aveva il suo, a seconda della lunghezza del braccio, e il detto significa semplicemente che tutti si comportano secondo la loro natura. Quella di Jacopo Poli lo ha portato a diventare guardiano di un mondo che merita di essere salvaguardato. La grappa che produce è il suo brassolaro: difficile trovarne uno che gli calzi più a pennello.