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 2017  ottobre 21 Sabato calendario

Foto di gruppo dell’Italia criminale

La storia d’Italia è anche una storia criminale. Il nostro Paese ha tratti peculiari che non sono paragonabili con quelli di altre democrazie occidentali: quattro regioni alle prese da sempre con la malavita organizzata, il dopoguerra funestato da terrorismo rosso e nero, stragi, violenza politica diffusa, specie negli anni Settanta. Questa specificità si unisce poi a un altro elemento che caratterizza il nostro carattere nazionale, ovvero la poca o scarsa voglia di coltivare quello che Gherardo Colombo chiamò «il vizio della memoria», che sarebbe tanto più necessario visto che abbiamo avuto, come ha calcolato anni fa lo storico Aldo Giannuli, 5000 vittime dal 1946 al 1993 per delitti a sfondo politico criminale.
Giancarlo De Cataldo ha riunito questo pezzo non trascurabile di biografia della nazione in Un fitto mistero. Immagini e storie del crimine, edito da Contrasto, che alterna ai testi dello scrittore una notevole galleria iconografica, nell’amara convinzione che «il fattore violenza ha esercitato un pesantissimo condizionamento sulla nostra democrazia. E lo ha fatto a prescindere dagli obiettivi immediati: sotto questo profilo le pallottole del bandito Giuliano e Capaci, le bombe di piazza Fontana e la Renault rossa di via Caetani appartengono, per così dire, alla stessa “famiglia”. Corollario di questo attento uso “politico” della violenza, l’ossessiva presenza, sullo sfondo, se non decisamente nel cuore, dei grandi misteri, di settori degli apparati dello Stato». C’è infine un ulteriore elemento a rendere più complessa la vicenda criminale nostrana, ed è l’elemento dietrologico o complottistico che accompagna inevitabilmente ogni giallo.
Molti di questi sospetti, sia chiaro, sono del tutto giustificati. De Cataldo cita la relazione del Copaco, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, redatta nel 1995 dall’allora presidente Massimo Brutti: un elenco minuzioso di “deviazioni” finalizzate al conseguimento di un unico obiettivo, ovvero impedire l’accertamento giudiziario dei troppi misteri della Repubblica. «Mai più visto né letto, negli anni seguenti, niente di simile», sottolinea l’autore. Prendiamo uno dei capitoli del libro, quello relativo al delitto Moro. Qui le foto del volume proiettano delle ombre lungo i decenni. Basta guardare le immagini di Angelo Palma e di Gianni Giansanti scattate nei giorni del sequestro e ritrovarsi trent’anni dopo – grazie alle istantanee di Lorenzo Maccotta, Martino Lombezzi e Tommaso Ausili – in via Gradoli 96, sulla Cassia. Qui nello stesso caseggiato dove durante il rapimento del presidente dc dimoravano i capi brigatisti Mario Moretti e Barbara Balzerani – un condominio, si seppe dopo, nella disponibilità dei nostri servizi – si svolge la trama di un ricatto politico-sessuale, che coinvolge l’allora presidente della Regione Lazio, carabinieri infedeli, un premier che avverte il politico dell’esistenza di un video che lo riprende con un trans. Scrive giustamente De Cataldo: «In una sceneggiatura, per quanto ardito possa essere il plot, vi giuro che una roba così non me la passa nemmeno il più complottista dei produttori».
La vicenda Moro è del resto la Summa dei nostri misteri. Nulla è come sembra. Restano, a distanza di quattro decenni, legittimi dubbi sull’esecuzione di via Fani, sulla via di fuga imboccata dai terroristi, sulla prigione del popolo, dove il presidente dc sarebbe rimasto rinchiuso per 55 giorni. Fu davvero sempre in via Montalcini? Vent’anni fa usciva il libro del giudice Alfredo Carlo Moro, fratello dello statista, Storia di un delitto annunciato, che smontava pezzo dopo pezzo la verità ufficiale tramandata dai brigatisti. Ora De Cataldo si amareggia perché i ragazzi di oggi non sanno nulla a proposito, delle strazianti lettere che Moro dalla sua prigione inviava. E resta difficile da capire, per chi guarda a quella stagione dolorosa, perché per Moro non si trattò, mentre lo si fece per il giudice Giovanni D’Urso e per il democristiano Ciro Cirillo.
Era quella anche l’Italia nera di Aldo Semerari, lo psichiatra che firmava perizie compiacenti per la malavita e finì sgozzato dalla camorra perché un giorno aveva aggiustato una consulenza per un clan rivale, o di Toni Chichiarelli, il falsario della banda della Magliana, che fu incaricato da un grumo di poteri opachi di redigere il falso comunicato delle Brigate rosse che dava Moro morto nel lago della Duchessa, e poi fu ucciso per misteriose ragioni. De Cataldo dedica ad entrambi i personaggi due medaglioni avvincenti. E naturalmente c’è anche un capitolo sulla banda della Magliana.
Non poteva mancare l’Italia del delitto che si dispiega come un romanzo d’appendice, il celebre omicidio Montesi, o quello di Christa Wanninger, la giovane donna tedesca uccisa nel 1963 a Roma, uno dei fatti simbolo della Dolce Vita, in una carrellata che ci porta fino ai fatti di sangue dei giorni nostri, ai casi di Garlasco e di Meredith.
«Ci sono solo due motivazioni che spingono un essere umano al delitto: l’oro e la passione», scrive l’autore, ricordando la celebre regola fissata quasi due secoli fa da Honoré de Balzac. Qualcosa di consolante c’è, ad ogni modo: ed è che l’Italia è cambiata in meglio. «Nel ’92 si commettevano 3,4 omicidi ogni centomila abitanti, nel 2016 la percentuale è scesa a 0,65».
Siamo un Paese con una storia in parte terribile, che non vuole ricordare, ma almeno viviamo un tempo meno violento.