Il Messaggero, 23 ottobre 2017
Caporetto, la sconfitta che portò alla vittoria
Tra le non numerose guerre combattute dall’Italia nella sua storia, il primo conflitto mondiale è quello che, ancora oggi, rimane meglio vergato nella memoria. Tante le cause. L’averlo vinto, certo. Ma anche l’essere stata, la Grande guerra, la più compiutamente italiana, nel senso che in essa troviamo racchiusi le nostre virtù e i nostri difetti. L’elasticità mentale, l’immensa capacità di sacrificio, la rapidità nel rialzarsi dopo aver subito colpi micidiali, tra le prime. L’improvvisazione, una certa retorica vanagloria, la sottovalutazione del nemico, tra i secondi.
IL SOPRASSALTO
Tutti caratteri visibili con nitidezza nell’ultimo anno di guerra, quello che va dall’ottobre del 1917 al novembre 1918. E scolpito dai nomi di due città, Caporetto e Vittorio Veneto, la prima diventata il simbolo della sconfitta, la seconda di un’imprevedibile vittoria. Su questo tema Stefano Lucchini ha scritto un libro intrigante ed originale: A Caporetto abbiamo vinto (Rizzoli). Intrigante lo è a cominciare dal titolo. Ma come, Caporetto, l’epitome della rovina, morale ancor prima che militare, tanto grave che, nei giorni successivi al disastro del 24 ottobre di cento anni fa, anche gli alti comandi nostri alleati temettero per un momento che la guerra fosse perduta? Eppure Caporetto, effettivamente una disfatta immane, consentì però al governo, allo stato maggiore e al popolo italiano quel soprassalto che poi, con una rapidità che sorprese i nostri scettici alleati, soprattutto francesi, pose le condizioni dell’importante vittoria di pochi mesi dopo.
Consentì soprattutto al governo di rimuovere Luigi Cadorna, su cui Lucchini a giusto titolo scrive giudizi assai severi: un «capo» (così del resto era chiamato) incapace di esercitare quell’autorità morale da lui attesa, un capo che infieriva sui suoi, un capo che aveva, fino a poche ore prima, sottovalutato le notizie dell’arrivo dei battaglioni austro-ungarici rafforzati da potenti contingenti tedeschi. Lucchini non è uno storico accademico, è un manager di rilievo e questo crediamo lo abbia aiutato nel mettere in luce le manchevolezze, diremmo oggi, di leadership, di Cadorna, un manager della guerra che rischiò di spingere la sua impresa (l’Italia) verso il baratro.
IL MONTAGGIO
Ma il libro di Lucchini non è solo una requisitoria contro il capo di stato maggiore. La sua originalità sta nella scrittura o diremmo meglio nel montaggio del volume. Usiamo un termine dal lessico cinematografico perché Lucchini accosta al suo racconto e alle sue riflessioni ampie citazioni dalle fonti originali (rapporti dell’esercito, discorsi, articoli di giornale) e lacerti di opere composte da chi, a botta calda o quasi, intuì esattamente che cosa era successo: tra tutti Curzio Malaparte, con La rivolta dei santi maledetti, e Giuseppe Prezzolini. Nel suo Dopo Caporetto, egli capì che il tracollo non era stato solo militare: riguardava il carattere degli italiani. E, come oggi Lucchini, anche allora Prezzolini scrisse «Caporetto ci ha fatto bene perché ci si fa grandi resistendo ad una sventura ed espiando le proprie colpe».
LE IMMAGINI
Ma la regia di Lucchini non si limita alla parola scritta: assieme ai testi di alcune canzoni, immaginiamo eseguite sotto voce nelle trincee, sono abbondanti le riproduzioni di immagini: dipinti, fotografie, caricature, cartoline dell’epoca, tanto che il lettore si trova visivamente proiettato un secolo indietro. E numerose di queste opere le hanno viste in pochi prima, anche perché provengono dalla collezione privata dell’autore. Alla fine della lettura resta l’impressione che gli italiani riescono a dare il meglio di loro stessi quando la testa gli è cascata completamente nel fango e tutti li danno per spacciati, come era avvenuto altre volte prima di Caporetto e come sarebbe accaduto anche dopo. Una straordinaria qualità; ma il libro di Lucchini fa capire che, magari, con un po’ di metodo e di accortezza, le Caporetto si possono evitare. Perché poi non è detto che il proverbiale Stellone d’Italia sia sempre lì a rifulgere.