il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2017
Tanta passione, pochi soldi. Il paradosso danza in Italia
È vero che la Cenerentola è un balletto, ma niente autorizza a fare del Balletto una cenerentola; eppure in Italia va così: i corpi di ballo, in una manciata di anni, si sono ridotti di un terzo, da 12 a 4; c’è una costante fuga di scarpette all’estero, volate a far carriera a Londra o Mosca anzichè restare precarie a Milano o Roma; esiste una sola accademia nazionale, a fronte di un milione di aspiranti ballerini; le recite sono pochissime e risicati i finanziamenti pubblici, fagocitati dalla lirica.
“Qui la danza è considerata, purtroppo, il parente povero dell’opera e della musica classica, se non un’arte di serie B”, ammette sconfortato Luciano Cannito, regista e coreografo internazionale, già direttore dei corpi di ballo di Napoli, Roma e Palermo. “Eppure il balletto è un nostro patrimonio culturale, nato in Italia e poi esportato in Francia (da Caterina De’ Medici), in Russia (con la scuola del Bolshoi fondata da Filippo Beccari) e da lì in tutto il mondo”. Anche la regina delle étoile, Carla Fracci, si sbilancia a dire che la situazione “è molto grave. Trovo profondamente ingiusto che le istituzioni trascurino la danza: non si può far morire così una tradizione, un’arte ultracentenaria, che andrebbe promossa e preservata con rispetto e grande cura”.
Dopo l’ennesima chiusura di un corpo di ballo, quello di Verona a febbraio, Cannito ha lanciato una petizione online diretta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al ministro del Mibact Dario Franceschini e al dg dello Spettacolo dal vivo Onofrio Cutaia. Oltre 16 mila cittadini hanno firmato per fermare la chiusura degli ensemble delle 14 Fondazioni lirico-sinfoniche, ensemble che in origine erano 12.
Non hanno mai avuto un corpo di ballo il Lirico di Cagliari, Santa Cecilia e il Petruzzelli di Bari (diventato però Fondazione nel 2003), mentre 8 sono scomparsi: al Carlo Felice di Genova, al Regio di Torino, al Comunale di Bologna, al Verdi di Trieste, alla Fenice di Venezia, al Maggio Musicale di Firenze – un “delitto” per Roberto Bolle –, all’Arena di Verona e al Bellini di Catania (non più Fondazione ma Ente autonomo regionale). In vita sono rimaste solo le compagnie della Scala, dell’Opera di Roma, del San Carlo di Napoli e del Massimo di Palermo, “contro – puntualizza Cannito – le 50 della Germania e le 95 della Francia”.
Per il coreografo non è un problema di soldi: “Il corpo di ballo è un costo solo per chi non lo sa gestire. Se ci fossero 10 corpi di ballo di 50 artisti ciascuno, costerebbero 20 milioni di euro lordi l’anno, ovvero 10 netti, in quanto il 50% ritornerebbe allo Stato in contributi e tasse. Come è possibile che non si trovino?”. Amareggiata è anche la Fracci: “Se la politica non coglie, non è per questioni di denaro, ma di scarsa volontà: con la danza si pensa sempre al risparmio. È un po’ triste per me che ne ho fatto una ragione di vita. Comunque sarò sempre in prima linea in questa battaglia”.
Altro vulnus è lo scarso investimento nella formazione: esiste una sola accademia nazionale, unica in grado di abilitare alla professione, a fronte – calcola Luciano Cannito – di “migliaia di scuole di danza, in cui studiano 1 milione e 400mila giovani, mentre non raggiungono il milione gli iscritti alle scuole di calcio”.
Va detto, comunque, che le alzate di sipario del balletto italiano sono pochissime: dalla relazione della Corte dei Conti sul 2015 si evince che a Milano sono state 65 su 303 rappresentazioni totali (opere, concerti, ecc.); a Napoli 29 su 169; a Palermo 16 su 188; a Roma 56 su 193; a Verona 14 su 135, solo per citare le città con un corpo di ballo, nelle altre è andata peggio. Anche per l’esiguità delle recite, le scarpette migliori fuggono all’estero: ad esempio, Vito Mazzeo, primo ballerino del Dutch National Ballet di Amsterdam; Gabriele Corrado, solista ai Ballets di Monte Carlo, da poco rientrato; Sara Renda, étoile dell’Opéra National di Bordeaux; Valentino Zucchetti, primo solista al Royal Ballet di Londra, dove Federico Bonelli è il principal dancer; Angelo Greco, principal al San Francisco Ballet; Petra Conti, principal al Boston Ballet; Jacopo Tissi, assunto al Bolshoi di Mosca.
“È inammissibile – rincara Cannito – considerare musica e opera lirica arti da sovvenzionare e il balletto un costo da eliminare. Le Fondazioni sono disastrate e da ristrutturare, d’accordo, ma perché a rimetterci, nella spending review, sono sempre i ballerini?”.
Buttata fuori dalla porta, la danza rientra però dalla finestra: “Oggi le Fondazioni che hanno chiuso i loro ensemble acquistano i balletti dall’estero, finanziando dunque, con i soldi dei contribuenti italiani, compagnie russe, francesi, americane. Così, certo, non si valorizzano le nostre eccellenze: non si investe, non si produce nulla in loco, come invece imporrebbe la legge; senza contare lo sfruttamento degli artisti, sempre dietro l’angolo quando si esternalizza”.
La sperequazione è lampante, se si ricorda che gli enti lirici sono da sempre i più foraggiati dal Fus: quest’anno (dati a preventivo) riceveranno più del 54% del totale dei fondi, circa 182 milioni su 335, stessa cifra nel 2016 e poco meno nel 2015. Se la passa un po’ meglio la danza contemporanea che, da sola, ha quasi il 3,5% del Fus (11 milioni), dato in crescita da anni, ma evidentemente risibile.
I numeri di pubblico danno però ragione alla danza e molto meno al comparto lirico che dovrebbe foraggiarla. Stando alla Siae, gli spettacoli di balletto sono in costante aumento dal 2008: nel 2015 erano circa 8.300 con 2 milioni di ingressi, contro i 3.600 della lirica a 2,2 milioni di ingressi. Il pubblico, insomma, è numericamente (quasi) lo stesso. Nel 2016 gli ingressi a teatro sono cresciuti, in particolare nella prosa e nel balletto (+0,68%), mentre nella lirica diminuivano (-1,61%). Il balletto ha incrementato anche le presenze (+83,11%), la spesa al botteghino (+5,83%), la spesa del pubblico (+6,93) e il volume d’affari (+6,68%), affari viceversa in calo nella lirica (-0,03%). “Ora però basta – conclude la Fracci – Si parla sempre troppo, è il momento di fare. E speriamo di ottenere qualcosa”.