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 2017  ottobre 23 Lunedì calendario

Adesso tra Barcellona e Madrid la battaglia è anche sulla lingua

«Bueno, pues molt bé, pues adiós». Il 22 agosto scorso, nelle ore concitate del dopo attentato sulla Rambla, più che la rapidità con cui i Mossos d’Esquadra smantellarono la cellula jihadista, fu questa frase del loro capo, il “major” Josep Lluis Trapero, a fare del super-poliziotto un “eroe” degli indipendentisti. Trapero liquidava così, mischiando spagnolo e catalano – «ok, allora molto bene, arrivederci» – un giornalista olandese indignato in conferenza stampa per una risposta in catalano a una domanda posta appunto nello stesso idioma. Come dire, se non capisci, peggio per te, puoi anche andare via. Il catalano è lingua ufficiale a Barcellona, assieme allo spagnolo – lo dice la Costituzione, non è affatto una prevaricazione – ma c’è chi non lo manda giù, ne interpreta l’uso come una ripicca, un gesto di sfida al centralismo di Madrid. Niente di nuovo, ma ora che la regione ribelle è sotto gli occhi del mondo – e i leader delle due parti finiscono in diretta sulle tv dei cinque continenti – l’intensità dello scontro linguistico non sfugge a nessuno. Anche perché c’è chi è capace di sfruttarla ad arte, soprattutto nel campo secessionista. Nel replicare due giorni fa a Mariano Rajoy, che aveva appena annunciato l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, il “president” Carles Puigdemont ha concluso il suo intervento rivolgendosi, in perfetto inglese, all’Europa. Ma è chiaro che il suo intento era quello di umiliare il premier, totalmente incapace di pronunciare un’intera frase nella lingua di Shakespeare: mitica una perla rubata cinque anni fa dai microfoni durante un incontro con David Cameron, quando il presidente spagnolo balbettò un imbarazzante “it’s very difficult todo esto”.
Un paio di settimane fa, Puigdemont non aveva mancato di punzecchiare anche il re Felipe, che con il suo discorso in tv, pronunciato completamente in spagnolo, aveva attaccato duramente i secessionisti di Barcellona. Al termine del suo intervento in catalano, il presidente si era rivolto al monarca in castigliano, puntualizzando: «Non le parlo in catalano, lingua che lei non capisce». Pura provocazione, perché in realtà, più di una volta in passato, quando la monarchia era impegnata in una complessa “operazione simpatia” in Catalogna, Felipe aveva dimostrato in più di un intervento pubblico di conoscere discretamente l’idioma.
Quanto al Parlament di Barcellona, l’impiego dello spagnolo nell’emiciclo è stato in parte sdoganato dall’irruzione, dieci anni fa, della formazione anti-nazionalista Ciutadans (poi diventata Ciudadanos con lo sbarco alle Cortes di Madrid) di Albert Rivera, il primo a impiegare regolarmente l’idioma di Cervantes, poi seguito dall’attuale capogruppo e leader dell’opposizione Inés Arrimadas. Ma in realtà c’è un precedente che fece scandalo: il 30 ottobre 1996, un “diputat” del Pp, Julio Ariza, osò rivolgersi in castigliano alle “loro signorie”. Indignati, abbandonarono l’aula i deputati nazionalisti e indipendentisti. «Això no, si us plau, que hi ha nens», dissero inorriditi. «Così no, per favore, che ci sono bambini». In tribuna c’era una scolaresca in visita al Parlamento. Già, i bambini. È proprio questo da tempo il vero tema dello scontro, alimentato da una parte della stampa madrilena che accusa le autorità catalane di indottrinamento degli alunni. Tutto perché nelle scuole catalane viene applicato da anni un modello di “immersione linguistica” che prevede il catalano come unica lingua veicolare. I critici dicono che i ragazzi non imparano bene lo spagnolo, relegato a poche ore di lezione alla settimana. La questione è controversa. C’è chi teme che Rajoy, con l’alibi del 155, possa intervenire a gamba tesa anche sulle regole dell’educazione scolastica.