L’Economia, 23 ottobre 2017
Il silenzio degli indipendenti
Le regole ci sono, altre più stringenti verranno.
In tema di governance delle aziende quotate e di linee guida per il funzionamento degli organi societari, non si può dire che non ci siano stati importanti passi avanti. Mosse per seguire – e qualche volta persino anticipare – le migliori pratiche internazionali. Ma poi alla fine, e non solo nelle società quotate, contano gli individui. Conta il loro profilo professionale ed etico.
Il dilemma
La consistenza delle relazioni sociali non è sempre un valore aggiunto. L’appartenenza o meno a circoli ristretti può generare insidiosi conflitti d’interesse. Il grado di immersione nelle comunità territoriali è un indiscutibile vantaggio. Ma qualche volta mina l’autonomia di giudizio dei prescelti. Non di rado i rapporti personali sono più importanti dei destini aziendali. Chi eccepisce, interroga, sospetta, è guardato con un certo fastidio. Se non peggio. Chi lascia correre invece è considerato più comprensivo delle difficoltà del management o della volontà degli azionisti. Un amico, un collaboratore reale. Quale delle due figure è più utile a una azienda? La risposta sarebbe scontata. Ma nella realtà il dissidente è un rompiscatole, qualche volta prevenuto, mentre un consiglio coeso dimostra di essere una squadra, di puntare senza indugi all’obiettivo strategico. Il pensiero unico viene scambiato per espressione di uno spirito aziendale saldo, poco importa se poi si andrà a sbattere, tutti convinti, contro un muro.
In poche parole: le regole contano, specialmente in un Paese a bassa intensità legale e a controlli laschi. Ma le persone ancora di più. Si tratta di selezionare le migliori. A volte però mettere troppi paletti è controproducente, si escludono di colpo i più bravi. Meglio avere un esperto con più incarichi che un indipendente in esclusiva non ferrato su nulla. L’onestà senza competenza è persino più dannosa della competenza senza onestà.
E se le due qualità coincidono, come spesso per fortuna avviene, una bassa remunerazione degli incarichi finisce, alla lunga, per intaccarle entrambe. Giusto non avere un imprenditore affidato nel consiglio di una banca, una buona regola. Ma anche se questo può avere credito dappertutto? Forse averlo sarebbe utile nel valutare una acquisizione. Si fa notare che con un consiglio composto da membri inattaccabili per requisiti, provenienti da organi di regolazione, un’acquisizione non si farà mai. Un po’ di rischio bisogna prenderselo. L’ossessione di non correrne alcuno, porta alla paralisi.
Il quadro delle norme che disciplinano la formazione dei consigli di amministrazione ha subìto negli anni profonde trasformazioni. I modelli societari sono oggi tre. Quello tradizionale con il collegio sindacale. Il monistico che assorbe i compiti dei sindaci all’interno del consiglio di amministrazione e il dualistico (sorveglianza e gestione) che, per esempio, Intesa Sanpaolo e Mediobanca hanno abbandonato giudicandolo troppo complesso. «Se guardiamo ai curricula dei consiglieri – dice Marina Brogi, vicepreside alla facoltà di Economia alla Sapienza e autrice di Corporate Governance (Egea) – dobbiamo concludere che, almeno sulla carta, le competenze sono molto migliorate. Più laureati, maggiore esperienza internazionale. Il sistema monistico è quello più simile al funzionamento dei modelli esteri. Responsabilizza i componenti, li costringe a sviluppare una attenzione maggiore alla tematica dei controlli, alla cosiddetta compliance. Sul ruolo degli indipendenti esistono ancora diversi malintesi. Il management dovrebbe interpretare la loro voce come un’ anticipazione delle domande che il mercato si farà su una certa operazione o commentando i risultati aziendali. Se sono meno critici del mercato forse servono a poco. Soprattutto all’amministratore delegato».
Paola Schwizer, ordinario di economia degli intermediari finanziari a Parma, è presidente di Nedcommuniy, l’associazione dei consiglieri indipendenti. La sua analisi parte dalla considerazione sull’evoluzione della normativa per attende a giorni il decreto del ministero dell’Economia in applicazione della direttiva comunitaria e del Testo unico bancario (Tub) sui requisiti di idoneità, di professionalità, competenza e soprattutto (per la prima volta con una legge) di indipendenza degli amministratori. Ma ci saranno anche, e andranno in vigore il 30 giugno del 2018, le linee guida dell’ Eba, l’autorità bancaria europea. «La novità principale riguarda i criteri di valutazione e selezione degli amministratori».
Schwizer riconosce che il codice di autodisciplina della Borsa, il lavoro del comitato governance presieduto prima da Gabriele Galateri e oggi da Patrizia Grieco, ha alzato molto la qualità degli amministratori e costretto le aziende quotate, non solo le più grandi, a rispondere alle sollecitazioni del mercato. Ed ha aumentato la consapevolezza di azionisti e management su quanto sia importante, per avere nel capitale investitori esteri, grandi fondi, una corretta e trasparente gestione delle strategie e soprattutto dei rischi.
Le cattive abitudini
«Le cattive abitudini – prosegue Schwizer – non sono però scomparse. C’è sempre troppa autoreferenzialità. E i consigli devono imparare a valutarsi, a darsi un voto, ma questo collide con le relazioni personali. Difficile assegnare un giudizio negativo a chi ti siede, più volte all’anno, accanto. Il sistema poi è ancora chiuso. Nei consigli ruotano spesso le stesse persone. I cacciatori di teste, quando devono selezionare una persona, come prima cosa le chiedono in quali consigli è già stata e il cerchio, inevitabilmente si restringe».
«Ricordo sempre – aggiunge Severino Salvemini, docente di organizzazione aziendale alla Bocconi – che il compianto Guido Rossi definì i consiglieri indipendenti, con scherno, financial gigolò. Quei tempi sono molto lontani, per fortuna. Anche grazie al lavoro di Assogestioni. Gli indipendenti nominati dalle minoranze presiedono in molti casi i comitati di controllo e sulle parti correlate, cioè la gestione dei rischi e gli eventuali conflitti di interesse. Danno contributi importanti, con qualche eccezione negativa, in comitati nomine e remunerazioni, al punto da avere a loro volta dei consulenti, vista la mole e la complessità delle materie. E qui c’è un tema di livello dei compensi non proporzionale all’esposizione, sempre più frequente, ad azioni di responsabilità». Salvemini sottolinea anche il fatto che il consigliere indipendente dovrebbe essere sempre più attento all’evoluzione degli indici di sostenibilità sociale di un’azienda, «non c’è solo il dividendo degli azionisti e la remunerazione dei manager».
La svolta nella governance è avvenuta con l’introduzione del voto di lista che ha consentito alle minoranze di esprimere i loro consiglieri indipendenti. Si discute oggi se anche un consiglio possa esprimere una sua lista. E sulla differenza dei ruoli tra indipendenti di maggioranza e minoranza. Anche le aziende familiari hanno adottato dei «principi di buon governo societario» con la consulenza di Piergaetano Marchetti. La presidente di Aidaf, Elena Zambon, ha insistito perché si arrivasse ad avere «almeno un indipendente per ogni consiglio». Ma qui ci si scontra frequentemente con il carattere e le attitudini dei proprietari che non raramente preferiscono inserire nei consigli, oltre ai familiari (troppi in Italia) persone di fiducia, commercialisti, avvocati. Si sentono più sicuri. Nessuno li contraddice.