L’Economia, 23 ottobre 2017
La caduta degli dei
Banchieri centrali come il capo della Bce Mario Draghi e organismi un tempo arcigni guardiani del rigore come il Fondo Monetario (Fmi) che invocano un aumento dei salari. Governi che in materia monetaria si mostrano più «falchi» dei loro istituti di emissione, costretti a continuare a sostenere le economie anche ora che la crescita si sta consolidando ovunque. Succedono cose strane in questo scorcio del 2017. Nonostante un clima economico rasserenato da un’espansione mondiale che, secondo il Fmi, raggiungerà il 3,7% quest’anno e il 3,8 nel 2018, rimane una certa inquietudine di fondo. C’è il timore che, prima o poi, possa ripetersi una crisi sistemica come quella del 2008, ma a suscitare malessere nell’immediato è soprattutto l’inflazione che, nonostante tutti gli interventi espansivi, rimane molto sotto il livello (almeno il 2%) necessario per avere una crescita che si sostiene da sola.
Non è un problema da poco perché, se un’inflazione alta come quelle del passato surriscalda le economie, una prossima allo zero le gela, costringendo le autorità monetarie a protrarre le manovre straordinarie (tassi bassissimi, acquisto massiccio di titoli e altro ancora) che già sono andate avanti per troppi anni e che, alla lunga, possono provocare squilibri gravi nei sistemi economici oltre che nei bilanci delle banche centrali, cresciuti a dismisura.
Arsenali scarichi
«Senza inflazione è difficile avere crescita salariale e se gli stipendi non aumentano è difficile avere stabilità politica» sintetizza Adam Posen, presidente del Peterson Institute, il principale centro di ricerche di economia internazionale di Washington, un esperto americano di politiche economiche e monetarie con un passato di banchiere centrale presso la Bank of England. Nei giorni scorsi, durante i lavori dell’Assemblea annuale del Fmi dove si è discusso molto di crescita e inflazione, Posen ha organizzato nel suo istituto un confronto su questi temi tra banchieri centrali e non (Draghi, Ben Bernanke, Lael Brainard, Bob Rubin, Phillipp Hildebrand) ed economisti puri (Olivier Blanchard, Raghuram Rajan, Carmen Reinhart) o con esperienze di governo come l’ex ministro del Tesoro Usa Larry Summers o Jason Furman. Lasensazioneèchei banchieri centrali a cui tutti devono gratitudine per aver salvato il mondo dalla depressione negli anni bui con le loro misure monetarie d’emergenza, siano oggi in difficoltà, con le mani legate: quasi dei santi chiusi in gabbia. Per salvare il mondo hanno sparato quasi tutte le loro cartucce e ora, con i tassi ancora bassissimi o addirittura negativi e le casse zeppe dei titoli pubblici e privati acquistati per anni, sanno di avere margini d’intervento molto ridotti in caso di nuove crisi. Ma, soprattutto, non riescono a venire a capo del nodo dell’inflazione che non si comporta nel modo previsto dalle teorie economiche. C’è chi, come il capo della Bank of England, Mark Carney, ritiene che sia solo questione di tempo: lo choc della crisi del 2008 ha spaventato e condizionato i comportamenti degli operatori economici più a lungo del previsto.
Molti altri pensano, invece, che i banchieri stiano usando schemi obsoleti per interpretare una realtà molto cambiata: sull’inflazione pesano l’invecchiamento della popolazione, l’eccessiva propensione al risparmio per proteggersi da crisi future, la globalizzazione che diluisce tutti i fenomeni su una scala planetaria, il commercio elettronico che abbassa i costi e tutte le altre innovazioni tecnologiche che modificano i percorsi classici dell’economia.
Nomine e indipendenza
Draghi tira dritto: lancia l’allarme per un’inflazione pericolosamente bassa, ma difende tutte le misure adottate. A cominciare dal ricorso ai tassi negativi che, ha detto al Peterson, si sono rivelati efficaci e privi dei temuti effetti negativi sui bilanci delle banche. Ma c’è anche chi, come il capo della Fed, Janet Yellen, pur orgogliosa dei risultati, riconosce che forse oggi ai banchieri potrebbero mancare strumenti interpretativi aggiornati ed efficaci.
Il problema va oltre la capacità di interpretare la realtà. Anche se a parole tutti continuano a invocare l’indipendenza delle banche centrali, è proprio questa autonomia che sembra essere a rischio. Lo vediamo anche in Italia proprio in questi giorni con lo scontro su Ignazio Visco, anche se qui la scintilla non viene dalla politica ma dalla vigilanza sulle banche. In Europa l’indipendenza della Bce è protetta dal suo statuto, ma in America la Fed ha tutti i suoi capi di nomina presidenziale: non solo Donald Trump deve decidere sul successore di Yellen, ormai a fine mandato (ma l’ha incontrata la settimana scorsa per verificare la possibilità di una sua riconferma). Il presidente miliardario ha una possibilità quasi senza precedenti di riplasmare l’intero vertice della Fed (che decide a maggioranza) visto che, oltre alla Yellen, Trump dovrà rimpiazzare il vicepresidente Stanley Fischer, dimissionario, e tre degli altri sette consiglieri.
C’è attesa per le nomine, ovviamente, ma in un certo senso la metamorfosi dei sacerdoti delle monete è già in atto: un tempo venerati come semidei, i banchieri centrali sono tornati ad essere comuni mortali. La loro autonomia era considerata sacra perché dovevano avere le mani libere da ogni interferenza politica per combattere l’inflazione. Ma se l’inflazione non c’è più anche quell’indipendenza viene vista come meno indispensabile. E se loro non riescono a rianimare i prezzi, forse tocca di nuovo ai governi con gli strumenti della politica economica.
Inaccettabile mettere in discussione un principio fondamentale con la scusa di un’esigenza congiunturale, obietta l’ex capo della Fed Ben Bernanke che invita a concentrarsi sulla ricostruzione dell’arsenale delle banche centrali in vista di crisi future e propone l’uso di strumenti tecnici diversi per cercare di far risalire l’inflazione. È l’uomo che ha salvato l’America da una depressione come quella degli anni Trenta del secolo scorso, ma la sua sortita non scalda più di tanto la platea del Peterson, con Stanley Fischer che si limita a un «proposta non priva di senso».