Libero, 20 ottobre 2017
Addio Lenzi, il nemico buono della sinistra
Ieri, a 86 anni, il regista, scrittore e intellettuale Umberto Lenzi è morto all’ospedale Grassi di Ostia, fiaccato da vari malanni (in primo luogo cardiaci), ma forse soprattutto dalla recente scomparsa dell’amata e indispensabile seconda moglie, la croata Olga Pehar, conosciuta grazie al cinema e tante volte sua segretaria di produzione. L’ultima volta lo avevo sentito qualche mese fa.
Mi aveva telefonato per dirmi che aveva da poco perso l’uso delle gambe. Una notizia terribile, che lasciava intuire un declino fisico ormai non più arrestabile, ma che lui mi comunicò senza che nella sua voce vi fosse traccia di disperazione o di autocommiserazione. Non era del resto tipo da lasciarsi andare a sentimentalismi o moine, Umberto. E certo non era quel che si dice una persona affabile. Aveva anzi quella malmostosità aggressiva e un po’ selvaggia che caratterizza talvolta i maremmani (era nato nel 1931 a Massa Marittima, in provincia di Grosseto). Sapeva legarsi, però. E, in modo burbero, dimostrare affetto, com’è accaduto col sottoscritto da quando, nel 2008, avevo curato l’editing del suo primo romanzo, Delitti a Cinecittà, che darà inizio alla sua seconda vita artistica, quella di giallista.
La prima, quella cinematografica, era stata memorabile. Regista tra i più prolifici in Italia, con oltre sessanta film all’attivo, Lenzi conosceva il cinema come pochi. Si può dire senza timore di sbagliare che proprio il cinema sia stato il suo amore più grande. A casa aveva centinaia di dvd e vhs che, religiosamente, vedeva e rivedeva ogni sera, ma senza trascurare, sino all’ultimo, di aggiornarsi su ciò che la settima arte seguita a proporre. Sempre con un occhio di riguardo, beninteso, per il cinema da lui più amato e più praticato, quello cosiddetto «di genere».
Diplomatosi nel 1956 al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma presentando come saggio un breve film dal sapore neorealista, I ragazzi di Trastevere, ispiratogli dalla lettura, l’anno prima, di Ragazzi di vita di Pasolini, Lenzi esordisce come critico cinematografico ma nel 1961 si butta subito per non uscirne più nella mischia dei set di Cinecittà, della De Paolis e degli altri stabilimenti cinematografici romani dirigendo il cappa e spada Le avventure di Mary Read. Sin dall’inizio, e come farà fino al termine della carriera registica, si indirizza per una sorta di istinto atavico dovuto forse alle sue origini proletarie verso un cinema “alimentare”: pur avendo i mezzi intellettuali e le capacità tecniche per puntare più in alto, o almeno provarci, opterà sempre per progetti dal ritorno economico sicuro e immediato, per quanto magari non eclatante. Ecco quindi, nei primi anni Sessanta, i film commerciali di derivazione salgariana come Sandokan, la tigre di Mompracem (1963) e I pirati della Malesia (1964). Ed ecco, poco dopo, i gialli e i thriller dove il suo tocco crudele e disturbante comincia farsi sentire, da Così dolce... così perversa (1969) a Gatti rossi in un labirinto di vetro (1975). Arriva poi, negli anni Settanta, la stagione più felice, quella dei polizieschi (o poliziotteschi, come la critica progressista li aveva spregiativamente definiti considerandoli fascistoidi), che produrrà esempi di cinema estremo, ultra violento e rigorosissimo quali Milano odia, la polizia non può sparare (1974) e Roma a mano armata (1976). Titoli che suggellano il rapporto con l’attore cubano Tomas Milian, poi sublimatosi nei futuri cult movie Il trucido e lo sbirro (1976) e La banda del gobbo (1977), in cui i due mettono a punto, facendo incassi stellari al botteghino, l’immortale figura dello sboccato ladro borgataro detto Er Monnezza. Ci sarà infine la fase horror e quella del truce filone cannibalico, ma si era già al tramonto: di Lenzi come regista e di una certa maniera di concepire il cinema.
Convintamente anarchico (era tra l’altro uno studioso maniacale della guerra di Spagna), Umberto non lo diceva esplicitamente tuttavia era chiaro che la disistima riservatagli dall’intellettualità di sinistra lo aveva fatto soffrire. Di rivincite se n’era prese parecchie, a cominciare dall’ammirazione di colleghi come Tarantino e Tim Burton, ma quella ferita non si era mai rimarginata. Senza i suoi lavori con Milian, però, sarebbe rimasto un regista tra i tanti. E lo stesso si può dire di Milian come attore se non avesse recitato con Lenzi. Così, invece, si sono iscritti entrambi all’esclusivo club di chi ha lasciato un segno che non si cancellerà mai del tutto.