la Repubblica, 22 ottobre 2017
Il tenente inglese che vide Caporetto
Una sera del 1953, Winston Churchill dette una cena a Downing Street in onore del maresciallo Tito. Fra gli invitati c’era un deputato molto alto e piuttosto anziano, con una raggiera di capelli bianchi intorno alla testa calva: Hugh Dalton era stato il primo ministro del Tesoro inglese del dopoguerra, e nel corso del proprio mandato (1945-47) aveva posto le basi finanziarie della socialdemocrazia britannica. Ma nel 1953 le sue conquiste erano ormai acqua passata, e l’invito lo lusingò moltissimo: prima d’allora non aveva mai sfoggiato le proprie decorazioni con la tenuta di gala, e dunque si affrettò a procurarsi il nastrino azzurro per la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, conferitagli per “le belle prove di coraggio e sangue freddo... durante la ritirata della Terza armata, 27-31 ottobre”.
Sì, perché Dalton era stato uno dei pochissimi militari britannici a prestare servizio in Italia prima, durante e dopo Caporetto. Tenente d’artiglieria, venne trasferito dalla Francia nel luglio 1917, in occasione del prestito britannico di sessantaquattro obici al generale Cadorna, e il suo cannone fu collocato nei pressi del fiume Vipacco. Prese parte all’Undicesima battaglia dell’Isonzo e alla ritirata al Piave, combatté nella battaglia del Solstizio e salutò infine la vittoria il 4 novembre, “l’ora del compimento perfetto”.
Nessun altro soldato britannico che visse quegli eventi pubblicò mai un libro al riguardo; With British Guns in Italy apparve nel 1919, ed è senz’altro l’opera di un giovane brioso, profondamente emotivo e dall’acuto spirito di osservazione. Dalton aderiva alla concezione romantica secondo cui l’Italia unita era un naturale emblema d’indipendenza, e andava quindi appoggiata contro gli imperi dinastici centro-europei. Non ne teneva in grande stima la classe politica; piuttosto, la nazione “Italia” incarnava l’anelito visionario alla libertà democratica, all’uguaglianza e a un mondo senza guerre.
I recensori del libro misero l’accento soprattutto sui pareri espressi riguardo alle cause della disfatta di Caporetto, giacché in Gran Bretagna Dalton fu con ogni probabilità il primo commentatore – e certamente il primo reduce – a respingere la tesi che i maggiori responsabili del disastro fossero i socialisti italiani e la propaganda nemica, e ad accusarne senz’altro il Comando supremo.
Fin lì, ogni scusante fornita da Cadorna nel corso della Dodicesima battaglia, e in seguito arricchita di particolari, era stata fedelmente riportata dai funzionari britannici, poi dai giornalisti e dai propagandisti, e addirittura dal più autorevole studioso britannico di cose italiane: lo storico George Trevelyan, autore di una famosa trilogia su Garibaldi. Trevelyan, in Italia con la Croce Rossa durante il conflitto, non aveva alcun dubbio che a Caporetto “si fosse consumato un tradimento” da parte di “pochi reggimenti” che avevano deciso in anticipo di arrendersi.
Dalton sapeva invece che questa spiegazione era insufficiente, e distingueva ben quattro cause concomitanti: ai soldati erano mancati “divertimento e riposo” lontano dal fronte; le loro razioni erano esigue; l’equipaggiamento (in particolare le maschere antigas) era di scarsa qualità; infine, il Comando supremo italiano aveva applicato “le più abiette e brutali tradizioni della disciplina tedesca”.
Questa valutazione documenta la sua grande onestà intellettuale: Dalton era pronto a smentire il consenso già unanime tra gli esperti. Tuttavia il libro non offre grandi prove a sostegno di queste sue osservazioni, e solo adesso scopriamo che una parte di queste pezze d’appoggio è contenuta nei suoi diari, mai pubblicati. Il libro attinge a questi diari in modo massiccio, ma decisamente selettivo, e Dalton omette del materiale che oggi ci appare assai significativo.
La prima di queste omissioni risale all’11 luglio 1917, pochi giorni dopo il suo arrivo in Italia. Dalton scrive: “... la tattica italiana consiste nel non far nulla il più a lungo possibile, e poi semplicemente scagliare contro l’obiettivo deciso una strabocchevole quantità di fanti. Mettono in conto di avere lo stesso numero di caduti e feriti”.
Quest’annotazione non può che riflettere conversazioni da lui avute sul posto. La Decima battaglia dell’Isonzo era terminata in giugno e l’Undicesima non sarebbe cominciata che in agosto; ma in Francia il rapporto consueto tra morti e feriti era di uno a 2,25 uomini.
Una settimana più tardi, Dalton annota: “Non lontano da qui la settimana scorsa c’è stato un ammutinamento: una brigata siciliana, convinta d’aver ricevuto l’ordine di tornare in trincea quando non le toccava. Dei siciliani si dice che siano tra i migliori combattenti italiani; ma sono anche i più lontani dall’Italia Irredenta, e dunque i più stufi della guerra. Si sono rifiutati di marciare: gli ufficiali hanno tenuto loro un discorso e poi li hanno fatti fuori. Lo stesso era accaduto con alcuni carabinieri, e poi la mitragliatrice li ha persuasi”.
Dalton aveva raccolto le voci sulla rivolta della brigata Catanzaro, la notte fra il 15 e il 16 luglio. Personalmente nutriva dei pregiudizi contro gli aristocratici, più che contro gli ufficiali; ma era anche sensibile alle esperienze e al punto di vista della truppa, e la sua era una sensibilità politica, non sentimentale né religiosa. Si consideri questa annotazione del 14 luglio (pure omessa dal libro): “Noi con le granate peschiamo nel torrente; mi si dice che gli italiani le usano anche nel seguente modo. Prendono un austriaco catturato e lo legano a un palo nelle prime trincee. Dopo di che assicurano uomo e palo sopra al parapetto, ben visibile ai commilitoni dall’altra parte, e gli inseriscono la granata, con una miccia da un minuto, nel deretano. (La bomba è talmente piccola che l’operazione non risulta dolorosa). Quindi accendono la miccia e arretrano di un poco giù in trincea. È una morte istantanea, ma appare barbarica. Corti (l’interprete italiano) lo ha visto fare, e Cochis (un altro interprete) ha inserito una granata e acceso la miccia di persona. Queste pratiche, probabilmente inevitabili nella guerra moderna, dimostrano quanto sia stato saggio (il presidente americano) Wilson a non elevare proteste umanitarie contro le atrocità avvenute in Belgio, volendosi mantenere coerente”.
Il 15 agosto Dalton accenna a un’altra esperienza che non riporta nel libro: “Disertori italiani fucilati a Savogna e traffico bloccato mentre passo, sotto gli occhi della soldatesca oziosa. Un macello di carne e sangue a terra e sui muri, dopo che i resti sono stati portati via con le barelle”.
Una settimana più tardi, il 22 agosto, Dalton intrattiene una conversazione con alcuni fanti: “Gli fa un gran piacere che io mi faccia capire in italiano e fraternizzi con loro. I loro ufficiali, dicono, non lo fanno mai, anzi sono parecchio altezzosi”. Come ufficiale straniero, la premura di Dalton verso questi uomini e le loro opinioni risultava doppiamente insolita.
Il 9 ottobre Dalton viene presentato al generale Aurelio Petracchi, al comando della brigata Parma, e il suo tratteggio dell’alto ufficiale è degno di Emilio Lussu: “Petracchi è un uomo molto sgradevole (benché assai amabile con me), che i suoi ufficiali subalterni chiamano Testa di morte. Li prende a strepiti in pubblico. Consumo con lui due pasti, la colazione alle 11.30 e il pranzo alle 19.30. Mangiamo bene. Lui si concede molte portate. Mi regala un sigaro, scegliendo con cura il migliore, e ne accende l’estremità su un’apposita candela personale... Manfredi (l’ufficiale di collegamento) sostiene che il suo generale è un tipo militare... brutale”.
Ma anziché riferire questi vividi particolari, nel libro Dalton dice soltanto che “la brigata Parma teneva la linea e l’ufficiale britannico al posto d’osservazione usava consumare i pasti presso il quartier generale”.
Dopo l’annuncio di Cadorna, il 21 settembre, che avrebbe sospeso ogni offensiva per il resto del 1917, gli alleati si ripresero gran parte della propria artiglieria. Il giorno 28 Dalton registra qualche pettegolezzo circa questa controversa decisione: “Bel pasticcio! A quanto pare, il nostro dipartimento di Guerra ha telegrafato a Cadorna: ‘Può fare a meno di qualche batteria britannica?’ e lui, arrabbiatissimo dopo che Lord Derby (il ministro britannico) era stato a trovarlo e gli aveva promesso altri rinforzi, ha telegrafato di rimando: ‘Certo, posso fare a meno di tutte’, e ha dato ordine di ritirarle e farle sostituire da italiani. Adesso (il generale) Delmé-Radcliffe, che è il nostro rappresentante presso il quartier generale di Cadorna a Udine e non vuole che ce ne andiamo, sta tentando invano di mettersi in contatto con lui, ma Cadorna è partito per Roma!... Ennesimo esempio della mancanza di tatto di Hamilton ( il generale comandante britannico in Italia) nel tenere i rapporti con Cadorna, che dal canto suo ha in tutta evidenza un pessimo carattere...”.
È vero che l’11 settembre Lord Derby aveva assicurato a Cadorna l’invio di tutti i cannoni, forse addirittura quaranta, di cui la Gran Bretagna si fosse potuta privare sul fronte occidentale. Secondo la storiografia ufficiale italiana si trattò non di un’offerta ma di una promessa; le cronache britanniche sono più ambigue, ma se Dalton ha ragione, il generale Cadorna – non per la prima volta – trasse tutto il peggio da una situazione già difficile, reagendo al suo solito modo testardo e collerico.
La Gran Bretagna finì per lasciare indietro cinque batterie, cosicché Dalton rimase sull’Isonzo durante il potenziamento in vista di Caporetto. Il 19 ottobre riferisce di “informazioni ufficiali secondo cui su questo fronte c’è una divisione tedesca”; in realtà le divisioni tedesche erano già sette. Il 23 ottobre scrive: “Si sente dire che un poderoso assalto austriaco era atteso per la notte scorsa e potrebbe giungere stanotte... Percepisco un’atmosfera venata di apprensione”. Ma le comunicazioni lungo il fronte erano così carenti che il 25, un giorno e mezzo dopo l’inizio dell’offensiva austro-tedesca, Dalton ancora non ha idea di cosa stia accadendo. Registra “qualche colpo” la mattina, “circa trenta” aerei nemici in cielo, e ha sentito dire che la brigata Torino “sembra assai nervosa e inaffidabile”.
Ancora il 27 del mese scrive che “le voci sono parecchio brutte, pare che i progressi tedeschi a nord siano considerevoli”. Nel corso di quella stessa giornata il reparto riceve l’ordine di ritirarsi oltre Gradisca “per servizio su un altro settore del fronte”, e giunta la sera del 29 Dalton sta portando la sua bocca da fuoco lungo la via per Latisana. Nella cittadina di Muzzana “la fiumana dei profughi per le strade va ingrossando. Gli sbandati saccheggiano case e botteghe”. Verso le sette del mattino del 30 ottobre si verifica d’un tratto “un tremendo fuggi-fuggi”: “Comincia con alcuni cavalleggeri al galoppo di lato alla strada in retrovia... e si diffonde come un contagio. Una folla ululante, al grido di Tedeschi, tedeschi! Sulla strada!, mi viene incontro schiumando, con il terrore in volto. La scena più demoralizzante che abbia mai visto. Divise, armi e gibernaggi buttati via; civili travolti e calpestati; gli autisti abbandonano camionette e cavalli, carri e trattori vengono rovesciati. Anche la fanteria corre per i solchi paralleli alla strada maestra. Più avanti, a Latisana, vengo a sapere che gli sbandati sono stati presi a mitragliate, e molti sono rimasti uccisi. Sul ponte di Latisana c’erano gli ufficiali con le rivoltelle, a sparare contro i fuggitivi, nel vano tentativo di fermare la corsa; che nel frattempo, dov’ero io, è proseguita per circa venti minuti, per poi scemare pian piano”.
“...Non devo omettere di registrare la scena terribile, e le urla delle donne di Latisana, quando si sparge la diceria falsa che il ponte è saltato in aria, e loro sono state abbandonate su questa sponda (del Tagliamento)”.
Nel libro Dalton scorcia molto l’esperienza: “Intorno alle sette del mattino (del 30 ottobre) ci venne riferito che si erano viste pattuglie della cavalleria nemica a nord della strada, e si erano verificati scontri a fuoco. Dopo un momento di panico e confusione, si mise tuttavia rapidamente in atto uno schema difensivo”.
Una settimana più tardi Dalton ebbe l’occasione di riflettere sulla “rotta” e compilare il suo primo elenco di cause: 1) Ripetuti attacchi con il gas 2) L’evidente potenziamento tedesco di uomini e artiglieria nel settore di Caporetto.
3) La paura dei tedeschi in alcuni reparti, come anche l’indisciplina e stanchezza della guerra negli stessi 4) La mancanza di decisione e autorevolezza tra gli ufficiali di fresca nomina. A questo elenco Dalton aggiungerà in seguito le “spie che parlavano italiano” e “naturalmente, il papa”; ma, per quanto di convinzioni anticlericali, eliminerà infine questi elementi dalla versione pubblicata della sua critica, tutta imperniata sulle gravi inadeguatezze del Comando supremo, e sarà quest’ultima a farsi strada nei più diffusi resoconti storici di lingua inglese e a divenire il nocciolo dell’interpretazione standard.
La storia d’amore tra il giovane tenente e l’Italia finì con l’esaurirsi. Dalton si trovò a deplorare l’operato di Sonnino ai negoziati di pace di Parigi e anche “l’ondata di furore popolare” intorno alla sorte di Fiume, montata ad arte dai giornali. Da deputato al parlamento britannico negli anni Trenta divenne un fervente antifascista che influenzò l’atteggiamento del partito Laburista nei confronti di Hitler e Mussolini: e forse questo spiega perché Churchill – che di fatto lo detestava – lo invitò a indossare il suo nastrino azzurro quella sera del 1953.