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 2017  ottobre 22 Domenica calendario

Manetti bros: L’arte deve essere libera dallo Stato. Anzi, se serve, deve sputargli in faccia

L’ufficio dei Manetti bros, al secolo Marco e Antonio, è la perfetta sintesi del loro mondo, storia, essenza; tra echi giovanili mai abbandonati (poster, fumetti, i Kiss troneggiano, libri) e il presente, quindi sceneggiature sparse, i collaboratori in circolazione, le stanze tutte aperte: si condivide; per ridurlo a un’immagine cinematografica, sembra di oltrepassare uno di quegli uffici moderni raccontati dai film sulla nuova vita professionale a New York. Loro due sono tra le ex rivelazioni diventate certezza della cinematografia italiana, e sono in sala con Ammore e malavita (applauditissimo a Venezia). In vent’anni hanno scalato la hit di credibilità, riconoscibilità nell’ambiente e appeal sui fan. Guai a definirli registi “di genere”, non lo amano, quando parlano spesso sembrano sincronizzati, uno smette l’altro riprende, difficilmente si sovrappongono o sono in disaccordo: al massimo su qualche sfumatura, mai la sostanza. Sempre per restare dentro la “pellicola”, hanno un qualcosa dei Blues Brothers; Marco ricorda Jake (John Belushi), capelli da Medusa, barba grigia e pronunciata, non sta mai fermo, combatte una battaglia perenne con i cuscini del divano, viaggia a un’alta velocità verbale; Antonio è molto Elwood (Dan Aykroyd), più alto di Marco, più cauto in certe situazioni, si muove poco sul divano e sa come mediare con il fratello.
Perennemente insieme…
(Antonio) La nostra fortuna è aver condiviso da subito questa passione; sin da piccoli non ci immaginavamo in nessun altro contesto professionale.
Avete dichiarato di non apprezzare chi attinge ai finanziamenti statali per i film.
(Marco) Li consideriamo la morte del cinema italiano, è sbagliato in assoluto, anche sul piano etico perché può sfociare nella censura; l’arte dovrebbe essere libera dallo Stato, anzi se serve deve sputare in faccia allo Stato stesso.
E invece?
(Antonio) Sul piano pratico dimostra che il cinema è una specie protetta.
(Marco) Infatti sono nati e cresciuti dei produttori italiani che non sono neanche interessati alla qualità o all’incasso; sono degli pseudo-professionisti che all’attore da cassetta preferiscono l’amico sfigato che costa meno.
Siete considerati dei pionieri del cinema di genere…
(Marco) In parte forse è vero. Ma non amiamo questa riduzione.
Perché?
(Marco) Non ha molto senso, ogni nostro film è diverso dall’altro, siamo tra i pochi registi italiani a non fossilizzarci su un genere.
Avete dichiarato: “Il film di genere prevede la totale assenza di impegno sociale e cronaca”.
(Antonio) Frase eccessiva, forse estrapolata da un contesto differente. Piuttosto siamo preoccupati dalla tendenza del momento a realizzare film che raccontano solo storie vere: il cinema deve attingere dalla fantasia e non dalla verità. Questa per me è l’arte. Per me se l’artista non attinge alla sua fantasia, imbroglia.
Un esempio?
(Marco) In questo momento sarebbe attuale e perfetto realizzare un lungometraggio sullo scandalo sessuale di Weinstein, la cronaca ha già dimostrato la sua forza. Ma non è da noi…
E sul piano sociale?
(Marco)Pensiamo, a volte, che il fine di un film è emozionare; ma se invece il punto alto è quello di affermare una visione politica, allora mi chiedo perché uno non si dedica ad altro, magari il saggista o il parlamentare.
(Antonio) Comunque non ci piace la parola genere, ma se sotto questa categoria inseriamo pellicole come Smetto quando voglio e Lo chiamavano Jeeg robot, va bene; con Gomorra e Suburra non ci troviamo, sono vicende legate alla cronaca, attingono alla cronaca e hanno uno sfondo sociale.
Al contrario…
(Marco) Ci interessa un cinema legato alla fantasia, al sogno, un cinema come evasione di due ore. E noi due su questo punto siamo stati coerenti e rigidi, anche quando conveniva buttarsi su altro; eppure abbiamo insistito.
Del cinema anni Settanta, chi apprezzate?
(Antonio) Dario Argento e Sergio Leone, i più grandi. Poi Bertolucci e Bellocchio.
Non Sergio Corbucci.
(Antonio) Abbiamo visto qualche suo film ma non è un regista di riferimento, possiamo apprezzare certe cose ma come spettatori, non per costruire il nostro percorso artistico. Insomma, Django non è tra i preferiti.
(Marco) La verità è che non ci siamo formati sul cinema italiano.
Voi fate o siete registi?
(Marco) Siamo. E perché non potremmo impiegare diversamente il nostro tempo fisico e mentale. Poi ci sono troppe persone della nostra età più ansiose di essere dei registi che di realizzare dei film.
Mai un dubbio?
(Marco) Come dicevamo prima: mai. Già da bambini pensavamo a tutto questo…
(Antonio) Noi ci sentiamo più pionieri di un cambiamento produttivo, perché come diceva mio fratello, molti si vogliono solo sentire registi, quindi pretendono la sedia, il camper, i mezzi, la telecamera migliore e via così…
Cosa intendete per “pionieri di un cambiamento produttivo”?
(Marco) Ci sono amici o semplici colleghi che magari vogliono realizzare un film ma aspettano anni in attesa di trovare o ottenere il giusto contributo, il giusto produttore, la perfezione. Fermi. Bloccati. Invece di andare avanti. Se hai qualche amico, una casa e un iPhone, puoi intanto iniziare a girare, poi vedi.
Abel Ferrara ha detto la stessa cosa: prendi in mano il cellulare e riprendi la vita.
(Marco) Non lo amiamo molto come regista, ma trovo le sue dichiarazioni perfette: se vuoi fare cinema, inizia.
(Antonio) Anni fa abbiamo realizzato un film con la macchina fotografica: il problema è che in troppi si lamentano e in continuazione.
(Marco) Ci capita di entrare in contatto con ragazzi che quando ci mostrano il loro girato, quasi a scusarsi aggiungono “Questa è la mia opera prima”. Ma cosa vuol dire? Anche Quarto potere lo era, eppure è un capolavoro.
Una giustificazione per salvare il proprio ego.
(Antonio) In un mondo sano, con giuste prospettive, dovrebbe spronare i ragazzi, perché sono loro quelli in grado di esplodere e stupire, non uno maturo arrivato alla sua decima opera.
(Marco) In Italia la maggior parte dei produttori pensa ai soldi e non alla creatività, e si sentono degli squali per questo, ne vanno orgogliosi, quando non si rendono conto che questo atteggiamento è di una ingenuità assoluta permesso solo dall’attesa dei soldi di Stato.
Gli attori vi pressano molto per ottenere una parte?
(Antonio) È la dannazione dell’essere regista, anche perché per loro è un momento particolare, con poco lavoro, quindi si amplificano tutte le nevrosi e le fragilità. E poi se si sentono bocciati, stanno male, la prendono sul personale.
(Marco) Il dramma dell’attore è che il suo talento non è l’unica variabile per ottenere una parte. Le offro un esempio: se giro il film dedicato a una nana in un carcere femminile, tra una nana che non sa recitare e Laurence Olivier, chi prendo?
Chi prende?
(Marco) La nana che non sa recitare. Ma l’attore questo aspetto non lo accetta.
Quindi vi angosciano…
(Marco) Tutti. E la frase classica è: “Non mi vuoi più bene”. E io: “Ma no, non ho un ruolo per te, non è colpa mia”. Allora insistono: “Creamelo”. Ma non sempre si può.
Per Giampaolo Morelli, il vostro attore “feticcio”, lo create…
(Antonio) In Amore e malavita non doveva esserci, poi per inserirlo abbiamo leggermente adattato il personaggio, e funziona bene…
Alessandro Haber è celebre per inseguire i registi, a partire da Pupi Avati…
(Antonio) A lui sono state proposte delle parti, ma piccole, magari due giorni di lavoro, e con il suo vocione ci ha risposto: “Ma allora non mi stimate!”
(Marco) Una volta lo incontro per strada, appena mi vede inizia: “Sei uno stronzo! Se non mi stimi dimmelo”. E io: “Ma se ti stimiamo tantissimo…”. Ed è vero. Ma l’aspetto spiacevole è un altro: quasi sempre gli attori si presentano con atteggiamenti seducenti, si comportano subito da amici.
Quanto è semplice definirsi “amici”?
(Marco) In questo caso penso sempre alla frase di G-Max (noto musicista rap): “Ma io e te abbiamo mai mangiato insieme?”.
Quanto avete rispettato il percorso che avevate immaginato da ragazzi?
(Antonio) Il nostro essere in due ci ha dato e ci dà la forza di non deludere i nostri ideali. Ci mettiamo spesso in riga.
(Marco) Combattiamo tantissimo per restare così, per non mollare quell’entusiasmo. Se non conservi la voglia di andare al cinema, perdi anche il desiderio di farlo.
Come “combattete”?
(Marco) Non guardo mai i film italiani: ho paura di entrare nel gioco dei colleghi, quello di non vederlo con la purezza dello spettatore, ma con gli occhi del professionista, perché magari frequento il regista, magari non è neanche un amico; magari conosco il produttore… Ho paura che mi inquini.
(Antonio) A differenza sua sono più curioso e non resisto, secondo me non andarci è una sconfitta.
Avete raccontato che per pensare bisogna immergersi in una vasca calda con in mano una mela.
(Marco) Sono stato io. Ma lo spunto nasce dalla mia passione per Agatha Christie, era il suo segreto per scrivere e un po’ funziona… Ah, la mela è inutile, l’ho eliminata, il resto va bene, liberi la testa.
Il giorno dopo la presentazione del film, leggete le critiche?
(Antonio) Siamo degli appassionati, le divoriamo tutte. Se ci danno fastidio? Il problema è che di frequente c’è l’abitudine a buttarla sul personale, una volta un critico ha scritto di noi: “Questo è cinema da Dams (Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo, ndr) dei bolognesi”. Peccato che noi non abbiamo mai frequentato il Dams e siamo di Roma.
(Marco) È importantissimo leggerle, non mi piacciono quando entrano negli strumenti del regista, quando spiegano come avremmo dovuto migliorare la pellicola. A ciascuno il proprio mestiere.
Come vi trovate ai festival?
(Marco) Bene! I film ci hanno permesso di realizzare dei viaggi bellissimi, come in Cina e Israele. Però non andiamo a prescindere, solo se presentiamo una pellicola.
Avete diretto ben dieci video musicali con gli 883 e Max Pezzali: sulla carta un mondo molto lontano da voi.
(Antonio) Non solo: ne abbiamo finito pure un altro. Ma lui è stata una scoperta, lavorandoci insieme abbiamo trovato un grande poeta della provincia e una persona fantastica.
(Marco) Max è una sorpresa, è un tipo preparatissimo, uno che approfondisce le questioni e con una memoria prodigiosa, a volte mi impressiona: si ricorda episodi assurdi.
In “L’arrivo di Wang” avete utilizzato Ennio Fantastichini, uno dei migliori attori italiani, forse un po’ sottovalutato.
(Antonio) Perché è uno libero, non ha cricche alle spalle, dice quello che pensa, non è un calcolatore, non è soggetto da salotti.
Esistono i “salotti per registi”?
(Marco) Sono molto importanti, aiutano. Eccome se aiutano.
Vi hanno mai irretito?
(Marco) C’è un aspetto concreto a salvarci: proprio non ci va, non siamo tentati.
Su cosa litigate?
(Antonio) Per motivi stupidi, quasi mai artistici, magari organizzativi tipo quando si deve girare una scena.
La fiction “Boris” dedicata alle nevrosi del cinema, quanto è reale?
(Antonio) Ci piace tantissimo, ed è talmente fedele alla realtà da non farmi capire come possa piacere fuori dell’ambiente cinematografico.
(Marco) Perché lo spettatore comprende sempre qual è la realtà. Però non l’ho visto tantissimo, sempre per quella mia distanza dagli italiani.
I vostri occhi sulla fauna dei frequentatori da Festival…
(Antonio) È pieno di pseudo-attori ultra-cinquantenni che vanno a tutti gli appuntamenti e si propongono in una maniera assurda, convinti che ogni incontro gli possa svoltare la carriera.
(Marco) La nostra ex agente, Carol Levi, diceva: “Ai Festival si danno quattro pacche sulle spalle, gli incontri di lavoro si fanno in ufficio. Ed è vero”.
Torniamo a Giampaolo Morelli: viene invidiato per i tanti lavori con voi?
(Marco) Forse un po’. Ma noi lavoriamo sempre con la stessa troupe. Sempre. E con un nucleo ristretto di attori. Abbiamo costruito una famiglia, non riusciamo a fare niente senza di loro.
(Antonio) Alcuni mi fermano e dicono: “Voglio essere anche io il vostro attore feticcio.
(Marco) Serena Rossi (tra i protagonisti di Ammore e malavita ), dopo aver firmato è venuta da noi disperata: “Ho scoperto di essere incinta”. Era convinta di dover lasciare. E noi: “Senza di te non giriamo. Andiamo avanti lo stesso”. Quindi abbiamo trovato delle soluzioni, come dei campi lunghi con sua sorella da controfigura. Insomma: è incinta ma non si vede.
Scelta di cuore…
(Antonio) Anche furba e cinica, siamo convinti sia meglio per tutti, c’era bisogno di lei e così siamo andati avanti. (Silenzio) Siamo così, ci piace l’effetto-famiglia.