La Stampa, 22 ottobre 2017
L’economista Paolo Balduzzi: La qualità della spesa sarà migliore, ma non si pagheranno meno tasse
«Se chi vota sì al referendum conta in questo modo di pagare meno tasse, molto probabilmente si sbaglia». Paolo Balduzzi, economista dell’Università Cattolica, si mostra scettico sui vantaggi economici legati agli effetti alle consultazioni in Lombardia e Veneto.
Quali ricadute comporta un eventuale sì al referendum sull’autonomia?
«Già parlare di autonomia mi sembra fuorviante. Non si parla di creare regioni autonome a statuto speciale, si tratta di modificare le competenze allargandole al massimo di 23 materie. Ma ancora nessuna delle due regioni ha ufficialmente detto quali tra queste materie chiederà».
Si parla però di soldi. La Lombardia, per esempio, calcola che potrà avere a disposizione almeno la metà del residuo fiscale, che quantifica in 54 miliardi. È così?
«Non c’è certezza di quanti soldi si gestiranno. Il residuo fiscale è la differenza tra quanto un territorio invia in termini di imposte allo Stato centrale e quanto invece lo stesso territorio riceve in termini di spesa regionalizzata. Mentre è facile calcolare quante tasse si mandano a Roma, è più difficile quantificare quanto Roma spende per il territorio. Le faccio un esempio. Se lo Stato spende un sacco di soldi nel Lazio perché lì ci sono tutti i ministeri, è evidente che quel denaro non è speso solo per il Lazio ma per tutte le regioni. Molte spese non hanno una chiara connotazione territoriale».
Quindi il tesoretto non è quantificabile?
«Il calcolo di 54 miliardi lo fa Eupolis, che è un istituto della Regione Lombardia. I lavori scientifici a livello internazionale si fermano a stime di 20-30 miliardi. La verità è che è del tutto ininfluente quant’è il residuo fiscale».
Perché?
«Se una regione ottiene una competenza su una materia prima gestita dallo Stato, significa che avrà le risorse per gestirla. Il Veneto e la Lombardia, in caso di successo di tutto il procedimento, si terranno i soldi per gestire le nuove competenze, ma parallelamente lo Stato non spenderà più il denaro per gestire le stesse materie. Quindi la differenza tra quanto si manda a Roma e quanto si riceve rimane immutata. In buona sostanza cambia solo chi gestisce le materie aggiuntive».
Avvicinare al territorio la gestione di alcune materie come la tutela della salute o l’istruzione può aumentare l’efficienza?
«In teoria sì. Ma molto dipende dalla classe politica: non è che la storia del regionalismo ci racconta di 19 regioni e due province autonome che hanno saputo gestirsi sempre nello stesso modo. Convivono buoni e cattivi esempi. La potenzialità per migliorare il servizio c’è. Ed è un fatto positivo che questo esperimento sia comunque portato avanti da regioni che hanno i conti messi meglio».
Dal punto di vista delle sue tasche il cittadino ha un interesse nel votare sì al referendum?
«Non mi aspetto, di qui a qualche anno, di vedere le imposte più basse in Lombardia e in Veneto solo perché c’è stato un passaggio di competenze su alcune materie. Forse, come dicevamo, ci sarà una migliore qualità della spesa. Ma temo che chi vota sulla spinta dal desiderio di pagare meno tasse andrà deluso».
Ma con una migliore qualità della spesa non si hanno più risorse a disposizione?
«Se avanzano risorse la regione può decidere se raccoglierne meno o spenderle diversamente. Per l’esperienza che abbiamo, le risorse vengono non dico buttate via, ma comunque utilizzate. Il punto è che, politicamente, rende di più far vedere che c’è una spesa in più rispetto a concedere un’aliquota in meno».