La Stampa, 13 ottobre 2017
La vita dura delle uber che crescono
Regola numero uno a Silicon Valley: non fidarsi dei ragazzi con le ciabatte. Quando visitai Uber, il più ricco «start-up» del mondo, un paio di anni fa, mi feci sedurre dai giovani in infradito che popolavano il suo fighissimo quartier generale a San Francisco.
Sembravano decisi a cambiare il mondo dei taxi e della logistica aiutati dalla tecnologia, i bisogni dei consumatori e l’incoscienza di chi inventa il nuovo.
Quando parlavano della loro «rivoluzione dell’ ecosistema dei trasporti», imprenditori, investitori e giornalisti venivano inebriati da quel mix di genio e sregolatezza.
Oggi, Uber è molto più sregolatezza che genio. La società è oggetto di cinque inchieste molto serie da parte del governo Usa, con accuse che vanno dall’aver rubato segreti a rivali ad aver spiato gli utenti. Il fondatore, Travis Kalanick, l’ex enfant prodige di Silicon Valley, è stato allontanato dopo una serie di scandali. E un paio di settimane fa, Londra – una delle città più redditizie per Uber – ha deciso di ritirarne la licenza percheé manca di «competenza e onorabilità». (Uber farà appello).
Il gigante dei taxi non è solo. Altre sgargianti stelle nel firmamento della tecnologia mondiale, quali Facebook, Google e Twitter, le fanno compagnia dietro alla lavagna. I tre colossi di Internet hanno problemi tutti loro per via di aver pubblicato spot pubblicitari falsi, probabilmente creati dal governo russo per aiutare Donald Trump a vincere le ultime presidenziali americane.
Il filo conduttore è che, dopo anni di crescita stratosferica, queste enormi imprese si trovano improvvisamente sotto accusa. Governi, consumatori e mercati hanno scambiato la servile adorazione del passato con la paura di aver creato dei Frankenstein moderni, capaci di controllare il sistema politico, i media e, se non li fermiamo prima, le nostre vite.
All’interno di queste società, la reazione è incredula: pochi mesi fa erano su un piedistallo altissimo ed ora sono nel mirino dei cecchini politici e mediatici. «Non è facile da digerire per chi parla di cambiare il mondo», mi ha detto un banchiere di Silicon Valley, alludendo alle molte dichiarazioni poco modeste del padre-padrone di Facebook Mark Zuckeberg, il co-fondatore di Google Sergey Brin e Jack Dorsey, l’inventore di Twitter.
Cosa succederà? Vale la pena guardare al passato, ad altre industrie che avevano molte ambizioni e poche remore. Basta pensare alla Standard Oil, il titano del petrolio di John D. Rockefeller, che fu «spaccato» dalla Corte Suprema Usa nel 1911 perché era diventato un monopolio. O la dissoluzione di AT&T, la «mamma delle telecomunicazioni» Usa, da parte del governo Reagan negli Anni 80. Nella vecchia Europa, non dimentichiamoci della sfida tra gli sceriffi della concorrenza di Mario Monti e la Microsoft di Bill Gates, che ai tempi dominava il software dei personal computer.
I critici la chiamano «tall poppy syndrome», la sindrome del papavero alto che affligge politici e burocrati nemici di chi ha successo e fa soldi. Per altri, è una funzione vitale degli organi democratici: fare in modo che nessuna impresa o individuo eserciti un potere eccessivo sul resto di noi.
La battaglia tra Uber, gli altri giganti di Silicon Valley e istituzioni «vecchie» quali governi e stampa è appena incominciata, ma i ragazzi con le ciabatte dovranno imparare al più presto che il capitalismo conferisce poteri enormi e responsabilità pesanti.
Francesco Guerrera è Direttore di Dow Jones Media Groupin Europa. francesco.guerrera@dowjones.com.
Twitter: @guerreraf72